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Psycho (Hitchcock, 1960).

Se c’è un regista in grado di parlare attraverso i suoi film, senza bisogno di sovrastrutture, questo è Alfred Hitchcock. Grazie a lui nella storia del cinema sono accadute due cose: il genere e l’autore si sono saldati (il primo come codice, il secondo come discorso); e la critica ha inventato la cinefilia per non sentirsi in colpa di fronte a un film di genere.

Slogan a parte, il quarantennale di Hitchcock è l’occasione per riflettere su un pensiero cinematografico tutto sommato oggi senza cittadinanza. È come se prima il postmoderno e poi la contemporaneità digitale nella quale siamo immersi abbiano occultato le potenze del sentire hitchcockiane: non c’è immersività corporea dei film di oggi in grado di pareggiare l’energia mentale e la potenza del sistema di suspense hitchcockiano.

Su Hitchcock, come noto, esiste una bibliografia sterminata (e per una volta questo abusato aggettivo ha un senso concreto). Forse la cosa migliore è farci aiutare da questa letteratura e pescare non già le cose migliori ma alcune riflessioni marginali che piace ricordare. Per esempio, in uno dei contributi più curiosi usciti sul Maestro, Alfred Hitchcock e la tradizione grassa, Claude Beylie compie un formidabile elogio del regista partendo dalla silhouette e dalla sua fama di mangiatore, e sostenendo che i registi dalla linea abbondante (cita anche Welles, Chabrol, Wilder) offrono un cinema epicureo ben diverso da quello – notoriamente ascetico – dei registi magri, secchi come Bresson, Dreyer, Rohmer.

Insomma, non solo Hitchcock era «una buona forchetta e un commensale di un certo peso, quest’ultimo aggirantesi intorno ai cento chili, con qua e là dei periodi di dieta spartana: François Truffaut si diverte a dire che è quest’aspetto di Hitchcock ad averlo innanzitutto affascinato, e che si è invano sforzato di somigliargli, sovralimentandosi…». Ma la presenza del cibo e delle cucine e degli strumenti culinari nei suoi film non è un caso, poiché nutre (le allusioni si sprecano irresistibilmente) un certo piacere della vita, legato in modo indissolubile alla frenesia della morte, e in altri ampiamente analizzati aspetti del rapporto con l’erotismo.

Nella sua lettura esoterica e platonica di Hitchcock, invece, Jean Douchet considera la suspense dei suoi film non come uno strumento narrativo o linguistico, bensì l’Idea stessa che precede la forma dello stile. L’idea della suspense, scrive, è doppia: «È il conflitto della Luce e delle Tenebre, sognate dentro la loro onnipotenza occulta. Essa è, presso l’artista, l’espressione di una lotta tra l’immaginario e lo spirito, e, nell’uomo, tra i suoi impulsi e la ragione. Uno e multiplo, Qualità e Quantità, Essere e Nulla, Libertà-Amore e Schiavutù-Solitudine…». Insomma, per Douchet la visione del conflitto luce/ombra è la sorgente delle sue più belle invenzioni formali, che sottintende e realizza ogni scelta di mise en scène.

Oltre all’approccio dietologico e a quello esoterico, piace ricordare quello musicale. Secondo Roberto Pugliese, per esempio, «non c’è in tutta la storia del cinema un autore musicale come Alfred Hitchcock». La musica nei film di Hitchcock perde quindi le tradizionali funzioni di commento, supporto, espediente e anzi diventa essa stessa protagonista della suspense. Essa «trova nella musica il proprio grado più alto di stereotipizzazione e nel contempo una sorta di “trasgressione per eccesso” (Psycho) o per difetto (Il ladro)». La musica è anche struttura e cadenza dei suoi film, persino come forma di montaggio, e ciò è tanto più sorprendente se si pensa che – come ancora ci ricorda Pugliese – Hitchcock ne aveva un’attrazione intuitiva e seducente, ma nessuna cultura, conoscenza, educazione.

In una raccolta di racconti, confessioni, articoli e interviste un po’ troppo oscurata dal celeberrimo Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut (e che in Italia si intitola Hitchcock secondo Hitchcock), l’autore stesso delinea nel corso di quasi cinquant’anni le sue precise idee intorno al cinema, alla suspense, al terrore, alla paura e soprattutto al piacere. Quella di Hitchcock – sulla compresenza di emozioni, anche epidermiche, terrificanti e di estasi quasi orgasmica – è una vera ossessione, che ha probabilmente esteso all’epoca la sua fama di cineasta indubitabilmente geniale ma sessuomane e sadico.

Rileggerle in fila, oggi, suscita ammirazione e interrogativi. Da una parte si capisce quanto la nozione di Autore per lui sia un fatto oggettivo, non un’interpretazione critica: Hitchcock ha sostanzialmente perseguito con costanza d’acciaio alcune figure e alcuni temi fondamentali, quali i connubi che abbiamo messo in luce con i suoi analisti poco sopra, e in generale una rappresentazione tormentosa, psicologica e maniacale dell’uomo moderno, urbanizzato del Novecento. Dall’altra ci si chiede per quale ragione una concezione del cinema al tempo stesso così romanzesca e totalmente armonica nei confronti dell’industria o dei gusti del pubblico appaia come la lezione più smarrita dei nostri anni. Chi, oltre a Quentin Tarantino (che non a caso, nel profluvio di citazioni, inserisce nel motore di molte sue storie proprio la suspense hitchcockiana), nel cinema contemporaneo può essere considerato a pieno titolo un erede di questo matrimonio perfettamente risolto tra spettacolo e autorialità?

Chiudiamo la zingaresca carrellata con una notazione, anch’essa forse meno nota di altre, di Truffaut su Hitchcock, dove per una volta questo mondo chiuso, questo universo labirintico e bastante a sé stesso che è la filmografia del Maestro, viene aperta e fatta respirare. In che modo? Attraverso gli attori. Scrive Truffaut: «Nei film di Hitchcock l’impressione di vita è data spesso dalla personalità che l’attore si è formato interpretando film di altri registi. James Stewart porta nel cinema hitchcockiano il calore di John Ford. Cary Grant il fascino che emana dalle sue commedie sull’infedeltà coniugale». Come a dire: anche nel cinema di Hitchcock si infilano i fantasmi degli altri film.

Riferimenti bibliografici
C. Beylie, Alfred Hitchcock e la tradizione grassa, in E. Bruno, a cura di, Per Alfred Hitchcock, Edizioni del Grifo, Montrepulciano (Si), 1981.
J. Douchet, Hitchcock, Cahies du Cinéma, Parigi 1999.
A. Hitchcock, Hitchcock secondo Hitchcock, Baldini & Castoldi, Milano 1996.
R. Pugliese, Hitchcock in musica, in D. D’Alto, R. Lasagna. S. Zumbo, a cura di, La congiura degli hitchcokiani, Falsopiano, Alessandria 2004.
F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1977.

Alfred Hitchcock, Leytonstone 1899 – Bel Air 1980

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