
Malgrado i molti sforzi degli storici per chiarire, correggere, precisare gli eventi del 1812, Guerra e pace ha fissato in modo permanente e indelebile l’immagine della campagna napoleonica in Russia. La sua narrazione si è da tempo trasformata in un potente elemento dell’ideologia nazionale (la “guerra patriottica”) grazie alla precisione del dettaglio e alla veridicità della rappresentazione. La critica formalista si è cimentata più volte su Guerra e pace. In particolare, Viktor B. Šklovskij dedicò al romanzo una serie di articoli pubblicati sulla rivista “Novyj Lef” nel 1927-1928 e poi raccolti in Mater’jal i stil’ v romane L’va Tolstogo “Vojna i mir” (Materiale e stile nel romanzo di Lev Tolstoj “Guerra e pace”) nel 1928. Boris M. Ejchenbaum ha invece accompagnato la sua monumentale e incompiuta biografia di Tolstoj (1928-1931, 1940) con saggi che coprono un arco di tempo che va dal 1919 al 1959.
Occorre per prima cosa ricordare che, per Ejchenbaum, Guerra e pace era stato dapprima concepito come «un piccolo romanzo familiare» e la guerra vi doveva servire «come sfondo generale», seguendo il modello della Fiera delle vanità (1848) di William Makepeace Thackeray. Tolstoj era determinato a smontare una lettura che gli sembrava mera descrizione delle “gesta” dei combattenti. Pertanto non prevedeva d’includere nella narrazione «né Napoleone né Alessandro, né Kutuzov né Talleyrand»; non intendeva introdurvi «né scene di battaglie, né discorsi sulla guerra» (Ejchenbaum 2009, p. 694). In sostanza, non doveva avervi posto la classica storia della campagna napoleonica intorno alla quale si era ormai costituita in Russia un’imponente letteratura.
Ma, se né Napoleone né Alessandro, né Kutuzov né Talleyrand erano, nei suoi propositi, gli eroi di Guerra e pace, chi avrebbe dovuto esserne protagonista? È lo stesso Tolstoj a spiegarlo in un canovaccio dove sostiene di volere scrivere «la storia di persone più libere degli uomini di stato; la storia di persone che vivono nelle condizioni di vita ideali [per lottare e scegliere tra il bene e il male], persone libere dalla povertà e dall’ignoranza, persone indipendenti, che non hanno i difetti necessari per lasciare una traccia nelle pagine delle cronache» (ivi, p. 479). Il progetto viene però ben presto modificato e sono proprio gli uomini di stato e di guerra a prendervi posto. Si inaugura così un nuovo genere letterario che, sotto la pressione degli avvenimenti, integra nella narrazione storica il “romanzo familiare” e, al tempo stesso, assorbe e dissemina i personaggi, persi nel flusso della storia: «Negli avvenimenti storici gli uomini così detti grandi sono etichette che danno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che ad essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre» (Tolstoj 1990, p. 711).
L’operazione di trasformazione fu facilitata dal fatto che l’autore, al momento d’iniziare a lavorare sulla trama, era già uno «scrittore militare» sopravvissuto alla caduta di Sebastopoli e, come tale, apprezzato dai contemporanei. Aveva perfino progettato una rivista letteraria per gli uomini di guerra, visto che la grande maggioranza dei lettori del tempo era costituita, a suo avviso, da militari privi di strumenti cólti in grado di «esprimere il loro orientamento». La scelta del tema – secondo Šklovskij (1978, pp. 16-17) – era probabilmente condizionata da questi interessi. Ejchenbaum è ancora più radicale riguardo alla psicologia tolstoiana, ritenendo che lo scrittore avesse frenato a stento la sua «passione» per la guerra: anche lontano dal fronte, era rimasto «un tattico e uno stratega». Egli conosceva «l’arte degli attacchi e delle ritirate» e, vissuto in altra epoca, sarebbe stato «un comandante, un guerriero». Sta di fatto che, malgrado le tante revisioni e gli aggiustamenti che si susseguirono alla prima edizione, il romanzo si trasformò in una «epopea storico-militare», colma di filosofia e teoria bellica (Ejchenbaum 2009, pp. 687, 689).
Intervenendo sulla stampa periodica nel 1868 per rispondere ad alcuni critici, Tolstoj spiegava che, in tutti i punti del suo romanzo in cui parlavano e agivano dei personaggi storici, egli non aveva «inventato niente». Aveva soltanto usato «il materiale disponibile», accumulatosi, nel corso del lavoro, fino a formare un’intera biblioteca. Tra i protagonisti vi era naturalmente Napoleone, la cui rozza raffigurazione nella letteratura russa dell’epoca è ben richiamata in una lettera inviata a Aleksandr S. Puškin dal poeta Denis V. Davydov, guerrigliero partigiano nel 1812 e cantore dello stile di vita ussaro: «Ma è mai possibile che non si possa lodare l’esercito russo senza biasimare Napoleone?». L’odio nei confronti di colui che aveva «attentato all’onore e all’esistenza della nostra patria», per lungo tempo, aveva spinto solo a ingiuriarlo. Era però giunto il momento di dimenticare «l’ostilità verso l’attentatore» e riconoscere «senza ombra di dubbio il suo genio» (Šklovskij 1978, p. 37).
I libri dai quali Tolstoj aveva tratto la sua documentazione su Napoleone, in verità, non erano numerosi. A fare di Guerra e pace una epopea storico-militare del popolo russo furono in particolare – secondo Šklovskij – l’Histoire du Consulat et de l’Empire (1845-1862) di Marie Joseph Louis Adolphe Thiers e la Descrizione della guerra patriottica del 1812 (1839) dello scrittore militare Aleksandr I. Michajlovskij-Danilevskij; un’opera, quest’ultima, faziosa e poco credibile, in cui l’accanimento contro Napoleone, i suoi marescialli e tutto l’esercito francese era pressoché incontrollabile e traspirava quasi in ogni pagina.
Se Michajlovskij-Danilevskij – storico ufficiale dello Stato russo nella ricostruzione della campagna del 1812 – è una delle fonti privilegiate di Guerra e pace, come riesce Tolstoj a non rimanerne prigioniero? È merito della sua paradossale ma profonda comprensione della figura di Napoleone, invidiato e, al tempo stesso, disprezzato «non per il dispotismo, ma per Waterloo, per l’isola di Sant’Elena». La condanna di Tolstoj non era «di natura morale, ma in quanto vincitore del vinto». Non era l’etica a guidarlo, bensì «l’eroismo come vera regola di comportamento ed effettivo incentivo al lavoro». L’etica era, per così dire, «una forma volgare dell’eroico – una sorta di deformazione dell’eroismo, che non trovava il suo pieno esito, la sua completa risoluzione». La consonanza era tale che la tolstoiana “non resistenza al male con la violenza” avrebbe persino potuto essere una speculazione formulata da Napoleone in età avanzata: «La teoria di un capo invecchiato in battaglie e vittorie, che ritiene che il mondo intero sia invecchiato e maturato con lui» (Ejchenbaum 2009, p. 696).
L’affrancamento avviene però soprattutto attraverso una originale trasformazione stilistica di cui Šklovskij ha chiarito la genesi in modo magistrale. Perché – se è vero che ogni scrittore, inserendo il materiale in una specifica struttura, lo deforma e rimaneggia, rende innocuo ciò che contraddice la rappresentazione, sceglie in base non al principio di attendibilità, ma d’idoneità a conformarsi alla costruzione dell’opera – a ciò si aggiunge, nel caso di Tolstoj, il bisogno di una documentazione con cui “polemizzare”. Invece di essere fonte di notizie, il materiale più congeniale è infatti quello che stimola a guardare gli eventi esattamente da un punto di vista inverso. In altri termini, «Napoleone e tutti gli avvenimenti legati alla Francia non sono stati raccontati da Tolstoj, ma sono stati ri-raccontati […] secondo il principio dello straniamento, cosicché la costruzione stilistica dei passi che riguardano i francesi è diversa dalla costruzione stilistica dei passi che riguardano i russi» (Šklovskij 1978, p. 68). S’introduce pertanto un procedimento artistico che consiste nel cogliere gli effetti dei singoli eventi così come si riflettono nella coscienza di uomini del tutto estranei ad essi: le azioni vengono descritte da chi ne resta al di fuori.
È per questa ragione che molti avvenimenti furono narrati (ri-narrati) in Guerra e pace attraverso l’eroe, quell’eroe che, assente nel “romanzo familiare”, qui diventa componente essenziale del racconto, perché l’avvenimento stesso venga sottratto ad una percezione consuetudinaria o convenzionale. Non è necessario alterare l’apparenza, si può anche solo cambiare il metodo della rappresentazione.
Riferimenti bibliografici
B.M. Ejchenbaum, Lev Tolstoj. Issledovanija. Stat’i, Fakult’tet filologii i iskusstv SpbGU, Sankt-Peterburg 2009.
T. Saburova, The Patriotic War of 1812 in the Commemorative Practices and Historical Memory of Russian Society from the Nineteenth to the Early Twenty- First Centuries, in Janet M. Hartley, Paul Keenan, Dominic Lieven, a cura di, Russia and the Napoleonic Wars, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2015.
V.B. Šklovskij, Materiali e leggi di trasformazione stilistica. Saggio su Guerra e pace, Pratiche, Parma 1978.
L.N. Tolstoj, Guerra e pace, Einaudi, Torino 1990.
D. Ungurianu, The Use of Historical Sources in “War and Peace”, in Rick McPeak, Donna Tussing Orwin, a cura di, Tolstoy On War: Narrative Art and Historical Truth in “War and Peace”, Cornell University Press, Ithaca-London 2012.
Napoleone Bonaparte, Ajaccio 1769 – Isola di Sant’Elena 1821.