Un sipario oro e azzurro leggermente dischiuso dipinto su telaio, due passerelle che cingono la buca dell’orchestra, inoltrandosi verso la platea. Un Leporello segaligno e allampanato che intona il suo “Notte e giorno faticar” pressoché a tu per tu con il pubblico del teatro cui confida “Voglio far il gentiluomo/e non voglio più servir”. Al termine dell’aria il finto sipario si alza a scoprire una arena lignea che campeggia sul palcoscenico. Gli spalti sono popolati da un pubblico arruffato, avvinazzato, fantoccesco, quasi come quello che in una “plaza de toros” assiste e acclama l’esibizione di un “toreador” e le cariche del toro. Un’unica immagine che si muove in verticale e si rovescia in una cavea profonda, come un “teatro orbitale”, un luogo dello spettatore inscritto nel luogo scenico, a raddoppiare la finzione ma anche a restituirne l’immediatezza.

È l’impianto scenico pensato da Mario Martone (complice lo scenografo Sergio Tramonti) per il suo Don Giovanni mozartiano che andò in scena per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli più di vent’anni fa, nel 2002, e che (dopo alcune riprese nel corso degli anni in vari Teatri d’Opera) è tornata ancora al Lirico napoletano, là da dove era partita, intatta nella sua messinscena dinamica, fluida e intensamente pittorica, ma questa volta con una sorta di “revisione”, come un cambio di prospettiva, quasi che la regia di Martone (che di per sé adotta una scansione cinematografica) faccia uso di un “movimento di macchina” progressivo ad inquadrare un punto di vista preciso e rivelatore: quello dei personaggi femminili.

Certo il capolavoro di Mozart/Da Ponte ruota intorno all’impulso di conquista amorosa del maschio, alla imperiosa e beffarda sete di dominio erotico di un personaggio che costituisce una specie di “mitologema” dell’immaginario occidentale. Il libertino, il seduttore, il dissoluto, il libertario, l’anarchico, il compulsivo, il gaudente, l’ingannatore, il lussurioso Don Giovanni, appare come il compendio di tutte le prerogative del “maschio mediterraneo”, ma allo stesso tempo, in quello che non a caso Mozart/Da Ponte denominano come “dramma giocoso”, incarna, disvelandone attraverso una raffinatissima “dissimulazione” drammaturgica e musicale tutte le contraddizioni, un’indole intrinsecamente e contemporaneamente tragica e ridicola.

Accade come se la sua “sfida al cielo” (nel gesto del delitto perpetrato contro la figura paterna e spirituale del “Gran Commendatore” e della conseguente “profanazione” della sua statua) fosse di per sé una pulsione autodistruttiva, lo specchio stesso di una “messa in scacco” del maschile. Un’angolazione questa che Martone coglie in una rivisitazione che è anche innovazione rispetto al precedente allestimento, senza forzare il gioco mozartiano ma lasciandone trasparire un senso obliquo, nel lavorare sui ruoli delle donne, sul loro peso specifico, come reagenti rispetto all’atto di seduzione erotica che traligna nello stupro con cui si inaugura la vicenda. Sono tre gli aspetti del femminile che trascorre nell’opera: la castità spirituale di Donn’Anna (che viene violata), la pietà amorosa e animica di Donn’Elvira (che viene tradita), l’esuberanza carnale e innocente di Zerlina (che viene tentata). Martone, scandagliando in profondità l’opera, muta il punto di vista su Don Giovanni, assumendo lo sguardo della contemporaneità, ma lasciando inalterata l’atmosfera corrusca e l’aura di un Settecento di ombre più che di lumi (i costumi di Tramonti fanno pensare ai quadri di Goya o di Füssli e le luci di Pasquale Mari esaltano la componente pittorica).

La regia di Martone (così come accadeva per le altre due opere della trilogia Mozart/Da Ponte, Così fan tutte e Le nozze di Figaro, messe in scena come un trittico dal regista, rispettivamente nel 1999 e nel 2012) adotta una prospettiva immaginaria e concreta che ruota su una sola immagine-chiave che prevede una scena che ingloba anzitutto lo sguardo mentale dello spettatore e insieme il suo sentire, l’attitudine a farsi ammaliare dalla sensualità musicale e che trova nel piglio recitativo delle cantanti (l’intensa e dolente Donn’Anna di Roberta Mantegna, la veemente e appassionata Donn’Elvira di Selene Zanetti, la tenera e maliziosa Zerlina di Valentina Nafornita) e dei cantanti (il Don Giovanni sprezzante e febbrile di Andrzej Filończyk, il Leporello sornione e indolente di Krzysztof Bączyk, il Don Ottavio vibrante e accorato di Bekhzod Davronov, il Masetto atletico e innamorato di Pablo Ruiz, il Commendatore cupo e solenne di Antonio Di Matteo) un’aderenza vibratile e sensibilissima.

L’azione e la visione oltre a incunearsi in profondità, a distribuirsi sugli scranni della struttura lignea che assume il senso di un anfiteatro e di un’arena, a spingersi nel fondo oltre l’intelaiatura delle gradinate in uno spazio quasi astratto dove si dipanano controscene e contraddanze (le coreografie sono di Anna Redi), si dissemina in platea e sui palchi di proscenio con corse e scorribande, oppure apparizioni inquietanti (come il cerimoniale funebre delle esequie del Commendatore che sfila lentamente, la cui figuratività richiama i quadri di El Greco). L’accento pittorico ritorna più volte fin dalla immagine della cavea che fa venire in mente una vertigine piranesiana, un quadro di Longhi, un teatro-baracca di Clerici. La stessa orchestra (sotto la direzione di Constantin Trinks), abbracciata idealmente dalle pedane aggettanti, viene a far parte del gioco scenico, a integrarsi nella compagine visiva, nella “gran festa” o nella cena approntata per l’apparizione abbacinante del Commendatore.

Emerge allora in tutta la sua evidenza ciò che sovente nella “giocosità” mozartiana residua in modo perturbante e ambiguo, mescolando tanto con contrasti violenti che con morbida tristezza il brivido del piacere al tremore del dolore: è il nesso oscuro erosthanatos, la pulsione di morte e di oblio inscritta nel movimento incessante del desiderio. E tale “oscuro oggetto del desiderio” risiede nella potenza del femminile con cui si scontra, inane, una sorta di “volontà di impotenza” che ci fa apparire la foia dongiovannesca, il suo ossessivo annusare l’”odor di femmina” come la rimozione appunto di una impotenza (in fondo Don Giovanni si trova costantemente impedito nell’atto sessuale).

Si assiste così nella lettura di Martone all’emergere, nell’inseguimento della donna e nel suo sottrarsi, nell’ostinato mascheramento di Don Giovanni come predatore, a un rovesciamento fantasmatico. È l’ombra del desiderio e insieme il “fantasma della libertà” ciò che Don Giovanni insegue e persegue provocando in tal modo una sorta di contrappasso: la persecuzione del femminile che si rivela come atto di resistenza e di riscatto (e qui il pensiero va alle atmosfere del cinema di Buñuel dove il femminile assume spesso un connotato di potenza vendicativa e castratrice nei confronti del maschile). Quella tribuna lignea diventa allora anche una assise di tribunale e a vestire i panni dei giudici sono soprattutto le donne che si prendono la loro rivincita sul maschio. Nell’aria del “catalogo” mentre Leporello procede nell’enumerazione delle donne sedotte, sottomesse e abbandonate da Don Giovanni, Martone fa entrare una alla volta una teoria di figure femminili velate di scuro, come altrettante ombre spettrali, a comporre un cerchio intorno al povero servitore.

Così come Zerlina canta l’aria “Batti, batti o bel Masetto”, capovolgendone in modo perfido il sottinteso masochistico, dal momento che lega con un sottile (e simbolico) nastro rosso i polsi del suo innamorato (gesto che viene ripetuto dalle altre giovinette con i loro spasimanti). Allo stesso modo il cambiarsi d’abito tra servo e padrone, nell’inganno per sedurre la cameriera di Donna Elvira, da gioco del doppio si fa gioco dell’ombra, inganno del fantasma: il canto della serenata “Deh vieni alla finestra o mio tesoro” suscita l’apparizione nei palchi di proscenio di misteriose figure muliebri velate di nero e di bianco, ancora una volta spettri femminili occhieggianti dall’aldilà (e qui si pensa all’aura carnevalescamente lugubre del Casanova felliniano). O ancora, in un altro momento dello spettacolo, una simile ombra femminile velata di scuro segue a piccoli passi alle spalle Don Giovanni, come un ammonimento oltre che una minaccia. Tale atmosfera umbratile viene rintracciata nel Don Giovanni da Pierre Jean Jouve (2001, pp. 176-178): «Un’esperienza complessa della Morte in un’arte che ha il dono della grazia […] la vera luce della morte resta suprema, e in essa, ne sono certo, Dio e Don Giovanni si riconciliano».

Nel Don Giovanni mozartiano, fin dai solenni e incombenti accordi dell’ouverture che si perpetuano nell’eco della voce del Commendatore, come nei “colpi” (ta-ta-ta-ta) persecutori della condanna finale, questo destino della caducità, questa sorta di “corteggiamento” della morte che traligna nella apparente vitalità dissipativa di Don Giovanni, insiste proprio nel fondo dell’esuberanza e del tripudio desiderante del libertino, e ci appare quasi come un disperato esorcismo (è in un cimitero che il seduttore accetta la sfida del bianco e spettrale simulacro). Eppure ciò che traspare nell’allestimento di Martone, e che diventa scelta di un punto di vista (un “movimento di macchina” morale secondo il dettato rosselliniano), e si traspone in modo intrigante e fascinoso nelle immagini, è l’attribuire al femminile una centralità che progressivamente guadagna campo e pone lo stesso personaggio di Don Giovanni in una luce diversa da quella che fin qui una certa visione ha attribuito al suo mito: l’eversore vitalistico che vince l’oscurantismo e prelude allo slancio rivoluzionario (ma già Joseph Losey aveva nel suo film-opera corretta questa interpretazione facendone l’ultimo rappresentante del potere assolutistico dell’ancien régime).

Il cambio di prospettiva di Martone illumina in modo disincantato, e al limite spietato, la vitalità dongiovannesca come una patologica coazione a ripetere, come una cieca ostinazione a non vedere la verità della donna. Allora quel gruppo femminile che appare immobile in trasparenza dietro un velario come l’immagine di un monito, una presenza che non può essere assoggettata da alcun atto predatorio e violento, oppure quel gesto (nel concertato finale “Questo è il fin di chi fa mal”), dello strappare a una a una le pagine del catalogo e gettarle nell’abisso fiammante, assumono, immagine e gesto, un senso fiero e beffardo che capovolge l’apparente tracotanza del gran seduttore in uno specchio distorto. Allora sarà il caso di dire: Don Giovanni o la vendetta delle donne.

Riferimenti bibliografici
U. Curi, Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
P. J. Jouve, Il Don Giovanni di Mozart, Adelphi, Milano 2001.
J. Miller, a cura di, Il libro di Don Giovanni, Pratiche Editrice, Parma 1995.

*La foto in copertina è di Alessia Santambrogio.

Don Giovanni ossia il dissoluto punito. Musica: Wolfgang Amadeus Mozart; libretto: Lorenzo Da Ponte; regia: Mario Martone; direttore: Constantin Trinks; scene e costumi: Sergio Tramonti; luci: Pasquale Mari; coreografa: Anna Redi; interpreti: Andrzej Filończyk, Antonio Di Matteo, Roberta Mantegna, Bekhzod Davronov, Selene Zanetti, Krzysztof Bączy, Valentina Naforniţa, Pablo Ruiz; produzione: Teatro di San Carlo di Napoli; durata: 3 30′; anno: 2024.

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