Se volessimo partecipare al gioco che ci propone Cuarón di moltiplicazione delle variazioni narrative della stessa storia, potremmo cominciare così: tutto per colpa di una fotografia. Intorno agli inizi degli anni Duemila una giovane madre, Catherine, incontra un ragazzo poco più che adolescente, Jonathan. Lui è alla ricerca di avventure, la fidanzata, con cui stava viaggiando dal Regno Unito, è dovuta precipitosamente tornare a Londra; Catherine è in vacanza con il figlio, forse annoiata dalla solitudine. Su una spiaggia del litorale toscano, lui la vede di spalle in riva al mare: la sua silhouette si staglia in controluce, come avvolta da una luce abbagliante. Le scatta una foto e lei lo vede; o meglio, forse vede se stessa con gli occhi pieni di desiderio di quel ragazzo. Così con audacia e consapevolezza, lo guida alla scoperta del sesso, del piacere, della seduzione. Ma mentre lei sa bene che quel flirt estivo è destinato ad esaurirsi nell’intensità di un passione che brucia, lui immagina un futuro insieme. E quando Jonathan cerca aiuto in mare, dopo essersi buttato tra le onde per salvare il figlio di Catherine andato troppo a largo mentre la madre dormiva, lei per un attimo crede che forse è meglio farlo sparire tra le onde. Jonathan muore e Catherine andrà avanti con la sua vita fino a quando il padre di Jonathan non vorrà farle pagare per quanto ha fatto (o forse non ha fatto?). 

Abbiamo così riavvolto il nastro di Disclaimer, o meglio dei primi quattro episodi, proposti in anteprima mondiale alla 81^ edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Non è certo il primo anno che alla Mostra vengono presentate delle serie, ma sicuramente il fatto che in apertura di festival ci sia uno dei quattro titoli seriali “d’autore”, così come li ha definiti lo stesso direttore artistico della mostra, è un segnale. Non soltanto di una sempre maggiore flessibilità del formato post-cinematografico (da TikTok a Wiseman), ma anche della ormai raggiunta maturità del formato seriale, che sembra essere entrato in una nuova fase in cui vengono privilegiati racconti più brevi, solitamente composti da una sola stagione autoconclusiva, soprattutto in quegli autori cinematografici che si cimentano con questo formato narrativo (da Bellocchio a Soderbergh).

Disclaimer partecipa a questo processo di cinematizzazione delle serie (o serializzazione del cinematografico?) in modo originale. Da un lato si appropria di una potenzialità specifica del formato, ovvero quello di giocare con il tempo. Come una serie blockbuster, ormai d’epoca, come Lost ci ha mostrato sin dagli inizi di questa rivoluzione seriale, la lunga durata permette più facilmente rispetto al formato chiuso e breve dei film (ma abbiamo detto che tutto sta cambiando) di giocare con i piani temporali. Passato e presente si intrecciano, costringendo lo spettatore ad un continuo gioco di ricostruzione della linea narrativa, di ciò che è veramente accaduto, un gioco incessante, molto spesso appassionante, a volte addirittura asfissiante. 

Cuarón tematizza questa attività dello spettatore. L’altra mossa, infatti, del regista di Roma e Gravity è quella di innestare in questo gioco tipicamente seriale di ricostruzione “di ciò che è accaduto”, una esplicita riflessione sul rapporto tra verità e finzione, vita e racconto. Catherine è una documentarista che ha appena ricevuto un premio per i suoi reportage, quando la sua vita viene travolta da un libro, un romanzo scritto dalla madre di Jonathan che il padre scopre in un cassetto, in cui si ricostruisce ciò che è accaduto nel passato tra Catherine e Jonathan, ma anche ciò che accadrà nel futuro alla donna. Il disclaimer (da qui il titolo della serie) svolge la funzione esattamente opposta a quella solitamente riservata a questa frase: riferimenti a fatti e persone realmente esistite non è puramente casuale.

All’intreccio dei piani temporali, Cuarón sovrappone l’intreccio delle linee narrative, segnalate da diversi specifici mediali. Innanzitutto quella del passato, presumibilmente ricostruito attraverso il racconto del romanzo, la cui messa in scena non viene mai taciuta ma sempre esplicitata: l’inquadratura si apre e si chiude su un’Italia di primi anni Duemila che non sembra essere perfettamente ricostruita e il ruolo della femme fatale che seduce (e uccide) Jonathan non viene interpretato dalla Catherine del presente, ovvero Cate Blanchett, ma da una donna più giovane, Leila George. A ciò si aggiungono due voci fuori campo che accompagnano il racconto del presente, nonché le fotografie scattate da Jonathan che rappresentano ancora un’altra prospettiva, quella appunto del ragazzo. Ciò che è vero e ciò che è finto, nella finzione stessa, è assolutamente indiscernibile e la verità non è altro che la narrazione più efficace. In questo modo il thriller psicologico di Cuarón aggancia il presente con una riflessione, per nulla implicita, sullo statuto mediale del contemporaneo, in cui i dispositivi della visione giocano un ruolo decisivo: i selfie ante litteram fatti con la Nikon che Jonathan e la fidanzata si scattano di continuo non sono altro che le crepe più evidenti della rottura del principio di verosimiglianza che serve al regista per tenere lo spettatore “sul pelo della narrazione”, e non farlo mai sprofondare del tutto. 

Ecco dunque che cogliamo uno degli aspetti decisivi per l’evoluzione del formato seriale: se esiste qualcosa come una serialità d’autore, la posta il gioco è quella di innestare elementi di moderna (o post-moderna) opacità, senza minare il dispositivo narrativo. Cuarón raccoglie compiaciuto la sfida e in fondo la vince.

Disclaimer – La vita perfetta. Regia e sceneggiatura: Alfonso Cuarón; fotografia: Emmanuel Lubezki, Bruno Delbonnel; montaggio: Adam Gough; musiche: Finneas O’Connell; interpreti: Cate Blanchett, Kevin Kline, Sacha Baron Cohen, Lesley Manville, Louis Partridge, Leila George, Kodi Smit-McPhee, Hoyeon, Indira Varma; produzione: Esperanto Filmoj, Dirty Films, Anonymous Content; distribuzione: Apple Tv+; origine: Regno Unito, USA; anno: 2024.

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