Se il racconto letterario e cinematografico del mito americano si è configurato come uno spazio sperimentale, dinamico e potenzialmente caotico, in cui i singoli e le comunità trovano la possibilità di rifondarsi e rinascere, la serialità statunitense ha individuato nel dramma e nella commedia familiare le sue forme narrative predilette per raccontare il tempo presente. Attraverso la famiglia, un modello socialmente consolidato, largamente criticato e al contempo continuamente sottoposto a nuove formulazioni, le serie tv hanno scandagliato le paure e le idiosincrasie contemporanee, ma hanno anche saggiato le possibilità di rigenerare le forme dello stare assieme.
A livello delle strutture narrative e drammaturgiche, la famiglia si adegua perfettamente alle logiche di ripetizione e dilatazione su cui si fonda il formato seriale (Casetti 1984). Si tratta infatti di una struttura parentale duratura e con un nucleo tendenzialmente fisso, composto da membri che crescono, si evolvono caratterialmente e tra i quali si instaura il confronto e lo scontro intergenerazionale. La famiglia consente dunque ai personaggi seriali di mantenere un sistema di relazioni stabile, riconoscibile anche se passibile di trasformazioni.
Trascurando le sitcom e le soap opera − generi la cui sopravvivenza è garantita proprio dall’esistenza dell’istituzione familiare − e concentrandosi sulla produzione seriale del nuovo millennio, ci troviamo di fronte a una moltitudine eterogenea di forme di vita familiare che vanno dalla rivisitazione della genitorialità (This Is Us, Transparent), alla famiglia criminale (I Soprano, Breaking Bad, Ozark), a quella disfunzionale (Six Feet Under, Shameless), fino alle epopee delle grandi casate che si stagliano su uno sfondo storico o fantasy (Downton Abbey, The Crown, Game of Thrones). Soprattutto nei drama e nelle serie tv a sfondo criminale, è attorno alla figura paterna che si costituisce la linea narrativa principale. Tony Soprano, Walter White e Martin Byrde sono tra i più noti antieroi della serialità contemporanea, dei “difficult men” con una lunga e fortunata tradizione cinematografica che include il western, la detective story e il gangster movie. Si tratta di personaggi maschili che «a volte sfogano la propria natura violenta e altre cercano di arginarla» (Martin 2018, p. 128) e che proprio in virtù del loro essere feroci e al contempo fragili, attratti dal potere e afflitti dai sensi di colpa, hanno catturato l’interesse degli spettatori. Le azioni di questi padri sono spesso condotte e giustificate in nome della salvaguardia della famiglia, nei confronti della quale si pongono come protettori. Oltre a reiterare uno stereotipo patriarcale e paternalistico, questo modello narrativo consente alla malvagità e alla violenza di propagarsi e attecchire tra gli altri membri della famiglia che, a gradi differenti, diventano conniventi e persino protagonisti di atti illeciti e immorali.
Succession (2018-in corso) narra la saga della famiglia Roy, proprietaria del colosso mediatico Waystar Royco. Logan, interpretato da Brian Cox, è il patriarca nonché il fondatore della suddetta multinazionale che controlla alla stregua di un monarca. Repubblicano e conservatore, stratega arrogante e irriverente, Logan non si fida di nessuno e per questo si è circondato di consiglieri che mette costantemente alla prova. Trama e agisce nell’ombra, si accorda su fusioni e cessioni in privato. Per lui il denaro è solo uno strumento del potere ma, in quanto magnate miliardario di un impero mediatico, è perfettamente consapevole che il confine tra politica e finanza è molto labile. Soffre di bulimia informativa: di nemici e amici, familiari e dipendenti ai vertici deve sapere tutto; deve poter controllare tutto.
Purtroppo Logan è anziano e malaticcio. Gli acciacchi e l’età avanzata lo conducono di fronte al baratro della successione: ciò che lo assilla e ne intensifica i malanni è la gestione futura di quel cerbero da lui stesso architettato e che spietato consuma le sue risorse fisiche e mentali. Logan è il suo impero mediatico e quest’ultimo è un affare di famiglia. Proprietà e legami di sangue di fatto coincidono e non possono essere separati. Un possibile voto di sfiducia da parte del consiglio di amministrazione o l’eventualità di una cessione di quote societarie che farebbe perdere ai Roy la posizione di maggioranza nella compagnia, sono i temuti spettri che aleggiano in tutte le stagioni. Ma Logan non reputa i membri della sua famiglia adatti a succedergli: tre mogli, tre figli variamente afflitti, una figlia, con un passato da consulente politico per i Democratici e troppe pretese da leader, un genero che si bea della conquistata parentela con i Roy, e ancora un fratello, suo nemico, e un nipote opportunista ma poco scaltro. La strategia del padre è di continuare a promettere ai suoi figli una fetta cospicua dell’impero, cedendo in verità ben poco e lasciando che tra questi si scatenino delle faide inconcludenti.
Nella terza stagione è Kendall (Jeremy Strong) a tentare invano di farla finita con la successione. Dopo aver denunciato pubblicamente gli illeciti della Waystar nel finale della stagione precedente, il secondogenito cerca in tutti modi di mostrarsi migliore del padre e dunque capace di condurre l’azienda e i suoi azionisti di maggioranza verso una futuro infarcito di retorica imprenditoriale dal volto umano, sostenibile e sensibile. Ma la pressione paterna e l’incapacità di riunire la famiglia sotto la sua ala di rinnovamento, accompagnati da un lento calo di visibilità e di credibilità, lo porteranno all’ennesimo crollo psichico. Emblematico è il settimo episodio intitolato “Too Much Birthday” e dedicato al party per il quarantesimo compleanno di Kendall. Una festa che, secondo il suo organizzatore, sarebbe dovuta essere epica, ma gli ospiti e gli spettatori si accontenteranno di un regresso verso l’edipico, dato che al party si accede attraversando un grande utero. Al termine dell’episodio, dopo aver tramato contro il padre, sbeffeggiato i fratelli e la sorella e infine litigato con loro per l’ennesima volta, Kendall conclude la serata in lacrime, accovacciato tra le ginocchia della fidanzata, amareggiato per aver perso il regalo dei suoi figli, terrorizzato dal biglietto di auguri di Logan contenente una cospicua offerta economica per uscire dalla società.
Il meccanismo narrativo della serie ideata da Jesse Armstrong è abbastanza semplice, quanto potente e perverso: la successione diventa una promessa di rinnovamento ma anche un’arma che Logan brandisce per ribadire il suo controllo su tutto ciò che sarà ereditato e dunque sulla sua stessa famiglia. Il futuro appare sbiadito dalle malefatte presenti e passate. Ogni promessa è un’intimidazione da cui i figli non possono sfuggire, perché anche loro sono dipendenti da questo circolo vizioso che si rinnova ad ogni crisi familiare e finanziaria. La famiglia esiste solo in virtù di questo meccanismo ricattatorio, in cui anche le vittime sono sul punto di commettere il patricidio. Ma il cliffhanger con cui si conclude la terza stagione ribalta completamente i giochi, aprendo la strada ad un figlicidio simbolico e finanziario. Logan, con la complicità della seconda moglie, riesce ad escludere i figli dall’eredità. Il circolo intimidatorio sembra dunque incepparsi e l’invidia del padre verso tutto quello che i figli hanno ricevuto senza particolari sforzi, congiunta alla loro loro incapacità di sostenere il peso dell’eredità paterna, raggiunge l’apice.
Succession utilizza il modello narrativo della famiglia guidata da un personaggio scomodo e a tratti orripilante − un altro indimenticabile “difficult men” − per portare alle estreme conseguenze la rivalità e la violenza mimetiche che si attivano quando in gioco c’è un desiderio di appropriazione. Questo desiderio, a lungo studiato da René Girard (2021) a partire dal romanzo moderno, oggi si ritrova in molte delle serie tv dedicate alle comunità segnate da traumi, che faticano a ricomporsi e a individuare nuovi modelli di coesistenza. In Succession l’alterità, che per lo studioso francese è la figura di mediazione tra il soggetto e l’oggetto del desiderio ed è dunque ciò che genera il contagio imitativo, è impersonata da una figura paterna crudele e dispotica, incapace di riconoscere e accettare i suoi figli.
Riferimenti bibliografici
F. Casetti, a cura di, L’immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio, Venezia 1984.
R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. La mediazione del desiderio nella letteratura e nella vita, Bompiani, Milano 2021.
B. Martin, Difficult Men. Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2018.
Succession. Ideazione: Jesse Armstrong; interpreti: Brian Cox, Kieran Culkin, Alan Ruck, Sarah Snook, Jeremy Strong; produzione: Gary Sanchez Productions, Project Zeus; Distribuzione: HBO; origine: USA; anno: 2018 – in corso.