West Side Story (Spielberg, 2021).

Il mito americano è l’unico vero mito moderno. E in quanto tale è in primis racconto. Racconto di conquista, di libertà, di contaminazioni, di sogni. Forse l’America più grande è quella solo raccontata, sognata, e mai visitata di Kafka. Che ne ha fatto precipitare l’immaginario – alimentato dalla iconografia fotografica dell’epoca – in un reale teatrale, come nel capitolo “Il Teatro dell’Oklahoma” de Il disperso [America]. Ed è anche l’America di cui parla Pavese, «un gigantesco teatro dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti» (Pavese 1991, p. 174). L’America è il luogo dove il racconto si fa scena, il futuro si fa presente, il tempo si fa spazio. E la narrazione diventa proiezione volumetrica del territorio.

Ma che significa che l’America è una scena? Significa che la scena americana, sia essa quella della wilderness dei deserti o dello skyline urbano, delle grandi masse di emigranti o delle solitudini radicali, delle ville di Beverly Hills o delle case di cartone degli homeless, identifica sempre una forma di vita. E dunque di azione. In scena, anche i silenzi sono azioni. L’America è una scena dove ogni luogo identifica una prassi, possibile o effettiva. Una scena che ci insegna – come pensava l’Emerson di The American Scholar – che senza agire non si può “crescere nella verità”, o come pensava Peirce che perfino la verità stessa è credenza, abito, cioè disposizione ad agire.

L’America è il luogo di attuazione di tutte le forme di vita possibili (e non) della modernità, perché determinate fin dalla sua fondazione da uno spirito democratico che è stato il vero propellente della iniziativa e della libertà americana, ne ha definito il suo “prodigio” ma anche la sua «difficoltà di apprendimento» (Tocqueville 2006, p. 256).  Perché il dinamismo inquieto che caratterizza la vita americana è proprio il frutto di istituzioni democratiche: «La democrazia non dà al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il più abile dei governi è impotente a creare: diffonde in tutto il corpo sociale un’attività inquieta, una forza sovrabbondante» (ivi, p. 261).

La democrazia è dunque dinamismo e azione. E l’azione si rapporta al caos, che l’alimenta e a cui dà forma. L’azione individuale e collettiva si misura sempre con qualcosa che la eccede, con una potenza indefinita che deve attuare. E in quanto tale l’azione è soprattutto capacità di creare il nuovo (come pensava Hannah Arendt). Come crearlo è il problema e la domanda. Come dare inizio a qualcosa di nuovo, che per essere tale deve tenere in conto ciò che è stato. E dunque essere sempre relativamente nuovo. Come fare in modo che l’azione nel suo ripetersi innovi. Già l’inglese Thomas Paine, una delle grandi figure della Rivoluzione americana, in Common Sense, affermava questa potenza di inizio: «È in nostro potere cominciare il mondo daccapo […]. Vediamo con occhi nuovi; ascoltiamo con orecchie nuove; e pensiamo con pensieri nuovi rispetto a quelli che abbiamo usato prima».

Questa apertura del futuro, inscritta nell’avvio di un Nuovo Mondo, che tiene insieme, in un melting pot, l’eterogeneo sociale e razziale, è l’American Dream. Che non è il sogno degli americani, cioè degli europei che si sono dati una seconda chance, ma è il sogno dell’umanità intera, che trova nell’America l’immagine di un inizio libero e democratico. Immagine che si frantuma e si ricompone costantemente. «In the beginning all the world was America», scriveva John Locke, che non significa altro che l’America è il nome proprio di ogni inizio, che è sempre un nuovo inizio e mai primo inizio. Il nome proprio di una capacità costituente continua. È questa l’America che ognuno porta dentro di sé. È questo il propellente di un sogno perenne, anche quando questo entra in crisi. Anche quando si frantuma, e lo fa necessariamente.

È quello che gli scrittori contemporanei americani continuano a restituirci nei loro romanzi, e che emerge da alcune conversazioni ora raccolte in L’America è un esperimento di Enrico Rotelli (La Nave di Teseo, 2021). «Il massimo sogno americano è che tu possa creare la tua identità da zero – dice Jay McInerney –. L’ideale di libertà è che tu possa crearti la tua identità» (Rotelli 2021, p. 40). Ed è quello che in una delle conversazioni più interessanti del libro, Jeffrey Eugenides afferma, citando il titolo del suo racconto, The Great Experiment, ispirato proprio a Tocqueville: «Il titolo deriva da de Tocqueville e la storia è costellata di sue citazioni: i suoi peana a questo paese e al grande esperimento che è stato, riunendo tantissime persone differenti in un continente nuovo. […] Questa nozione dell’America come un posto dove le persone creano il proprio paese e il proprio destino» (ivi, p. 103).

L’America è dunque un esperimento, la cui riuscita risiede semplicemente nel farlo, e nel continuare a farlo. Il successo è nell’esperimento in sé e non necessariamente nel suo risultato. Perché qui capiamo quello che il Sogno Americano manifesta veramente: non tanto la spinta verso un futuro utopico e idealizzato, quanto l’esposizione radicale a quella potenza che trascina soggetti e comunità a rifondarsi e rinascere sempre di continuo (potenza che in Europa si è progressivamente affievolita). Potenza “originaria”, collocata in un “fuori”, che si esperisce di volta in volta attraverso le azioni che lo manifestano e che gli danno corpo e forma. Ma quello che viene manifestato non è una interiorità psicologica né una dimensione cognitiva, ma una «esperienza radicale» (William James) che precede ogni riflessione e conoscenza. O meglio che fa sì che tale riflessione passi attraverso quello di cui parlava Pavese, introducendo Melville, un pensiero «pensato con tutto il corpo» (Pavese 1991, p. 74). E che D.H. Lawrence negli Studies in Classic American Literature ha sintetizzato nel modo migliore, con l’idea dell’impersonalità dell’IT: «The true liberty will only begin when Americans discover IT, and proceed possibly to fulfil IT. IT being the deepest whole self of man, the self in its wholeness, not idealistic halfness» (Lawrence 2014, p.18).

Dunque il Sogno Americano non è stato altro che la capacità di costruirlo sempre di nuovo, e di reinventarlo rischiando. Perché il rischio, e il coraggio che deve accompagnarlo – «Senza il coraggio», dice Erica Jong, «non puoi fare nulla che meriti d’essere vissuto»  (Rotelli 2021, p. 25) –, come talvolta la violenza, sono parte integrante dell’avventura americana. Non l’avventura di un popolo, ma l’avventura dell’intera umanità, che attraverso quel popolo e quell’immenso Paese, riscopre le sue capacità e il rischio continuo di riaffermarle.

Riferimenti bibliografici
D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, Cambridge University Press, Cambridge 2014.
C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1991.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.

Enrico Rotelli, L’America è un esperimento. Scrittori e storie dagli Stati Uniti, La Nave di Teseo, Milano 2021.

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