Coppie, famiglie, comunità locali e nazionali: le forme della collettività e i processi di costruzione e disgregazione che le caratterizzano sono un perno attorno al quale molto spesso ruotano gli ingranaggi narrativi del racconto seriale.
Concentrandosi sulla produzione degli anni duemila di matrice anglofona, escludendo la monumentale trilogia di Heimat (1984, 1992, 2004) diretta da Edgard Reitz e Twin Peaks, il capolavoro di David Lynch che a distanza di 27 anni dalla prima stagione è tornato per assumere le fattezze di una cosmogonia, è stato Lost a riprendere e intensificare l’interesse della serialità contemporanea verso la messa in scena di narrazioni che coinvolgono e stravolgono una comunità. La serie, trasmessa tra il 2004 e il 2010 dall’emittente statunitense ABC, ha imposto alcuni filoni tematici, come il ricorso ad un immaginario catastrofista e la stratificazione di misteri e complotti disseminati in ogni episodio. L’opera ideata da J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber fonda la sua tenuta narrativa sul rapporto che si instaura tra il tempo del racconto, continuamente esposto ad anacronie, finalizzate alla moltiplicazione dei mondi alternativi abitati sempre dagli stessi personaggi e alla creazione di cliffhanger che rilanciano le attese degli spettatori fino al finale sospeso con cui si chiude la serie, e le peripezie necessarie alla costruzione e alla sopravvivenza di una comunità che sembra essere scampata alla morte dopo lo schianto di un aereo di linea su un’isola ignota.
Vittime, carnefici
Se il bisogno di raccontare storie è un carattere costitutivo di ogni gruppo sociale, necessario per rinsaldare i legami comunitari e fondamentale per la costruzione di un patrimonio culturale e simbolico condiviso, negli anni successivi all’11 settembre e con l’avvento della guerra al terrore, il panorama seriale ha visto l’aumento di narrazioni – si potrebbe parlare di ripetizioni suscettibili di variazioni significative – incentrate sulle comunità attraversate da traumi, che stentano a ricomporsi, frantumate da eventi drammatici. Non è un caso se la proliferazione di serie che trattano le sorti di una comunità sia direttamente connessa o presenti delle eco con questi eventi: se l’attacco alle Twin Towers ha reso labili, a tratti indistinguibili, i confini tra la finzione audiovisiva e la documentazione degli eventi, la guerra contro il terrorismo ha inaugurato una modalità del conflitto fondata sulla diffusione della paura nei confronti dell’alterità e ha alimentato un immaginario mediatico in cui il terrorista può insediarsi in seno al corpo sociale e colpirlo brutalmente.
Molti sono gli esempi in cui il nucleo narrativo della serie è costituito dall’avvento di una minaccia, interna o esterna, alla stabilità della comunità e dallo scatenarsi della violenza secondo gradi di intensità variabile: dai mondi distopici, popolati da zombi (The Walking Dead) e vampiri (The Strain) alle teocrazie totalitarie (Handmaid’s Tale); dalla rivolta degli androidi contro gli umani (Westworld) alla ricerca di un rifugio sicuro nei fanatismi religiosi (The Path); dall’indagine di polizia che svela il passato, accuratamente celato, di una piccola cittadina (Broadchurch, Rectify) ai mondi chiusi nei quali, una volta entrati, non è più possibile superarne i confini (Wayward Pines).
Per preservarsi e rigenerarsi, il gruppo ha bisogno di fabbricare il suo pericolo, di rintracciare un capro espiatorio sul quale esercitare la sua violenza, di inoculare al suo interno dosi accuratamente controllate del male dal quale tenta di scampare e sul quale attuare la propria vendetta.
Le mogli protagoniste di Big Little Lies (2017) compiono un brutale omicidio per difendersi dalla violenza di uno dei mariti. Le vetrate che avvolgono le ville sull’Oceano Pacifico, il lusso degli arredi, lo sfarzo delle merci sono elementi scenografici che permettono al “branco” di donne e ai loro figli di essere esposti a una mondanità costante. Ma nel riflesso di queste apparenze appaiono gli odi reciproci e le frustrazioni individuali. L’utilizzo dei flashforward in apertura di ogni puntata – strategia narrativa già rodata in altre serie affini come The Affair (2014) e Bloodline (2015-2017) – non serve a rivelare l’assassino ma a rilanciare, attraverso le dichiarazioni degli altri personaggi, protetti dal segreto istruttorio e dal vetro della stanza degli interrogatori, l’esigenza di una vittima espiatoria – per riprendere un concetto ampiamente sviluppato da René Girard –, sulla quale sfogare le proprie frustrazioni e trovare così una parziale e temporanea protezione dalla loro stessa violenza.
Laddove la perdita dei propri cari non può essere elaborata attraverso il rito del lutto, il dolore può essere estinto attraverso dei sedativi illusori: proliferano medium e veggenti che promettono un contatto con il familiare scomparso, si sviluppano tecnologie capaci di accedere a dimensioni parallele, nascono sette che annunciano e attendono la fine del mondo, si inventa una nuova religione e se ne scrive un libro sacro. In The Leftovers (2014-2017), ideato sempre da Damon Lindelof assieme a Tom Perrotta, questi e altri palliativi si susseguono lungo il tessuto narrativo delle tre stagioni e sono tutti scatenati dallo stesso evento: il 4 ottobre del 2011 il 2% della popolazione scompare nello stesso istante e senza alcuna causa apparente. La dipartita di 140 milioni di persone diventa così un trauma insanabile, la cui drammaticità supera per certi versi quella dell’attacco alle Twin Towers: nessun nemico a cui giurare vendetta, nessun cadavere da seppellire, nessun mausoleo da poter erigere per ricordare coloro i quali non sono né vivi e né morti. Assenti eppure sempre presenti nella memoria di quanti non possono e non riescono a dimenticare l’istante della partenza improvvisa (Sudden Departure) dei propri familiari.
Insieme, più sicuri
Il paradigma immunitario teorizzato da Roberto Esposito presuppone la presenza del male che deve contrastare in seno all’organismo sociale: è solo includendo all’interno dei suoi confini il “morbo” da debellare che diventa possibile garantire la profilassi della popolazione. Nella guerra al terrore è alimentando e controllando la paura delle masse che si garantisce la coesione dell’opinione pubblica nei confronti della caccia ai terroristi.
L’ultima stagione di Homeland ripropone allo spettatore un universo finzionale in cui il rapporto con la cronaca e la politica contemporanea è stringente e a tratti si sovrappone a questi ultimi. Negli ultimi episodi, la propaganda nei confronti del nemico interno raggiunge l’apice: si costruisce un controspionaggio interno all’Fbi per screditare la neo-eletta presidentessa degli Stati Uniti e quest’ultima, nel finale, dopo lo scampato pericolo, erige attorno a sé una spessa coltre di diffidenza e un sistema di sorveglianza che mira a scovare gli avversari che albergano nelle istituzioni governative.
«We make the terror»: sono queste le parole conclusive della quarta stagione di House of Cards (2013). Seduti nella Control Room il presidente degli Stati Uniti e la vicepresidente, nonché consorte, assistono impassibili alle immagini che scorrono sullo schermo e che documentano l’esecuzione di un uomo americano da parte di due suoi concittadini, convertitisi alla causa del Califfato islamico. Grazie a un lento carrello in avanti la macchina da presa si avvicina ai due protagonisti: lo sguardo degli astanti verso lo schermo posto fuoricampo si trasforma in un’interpellazione, inquadratura che ricorre spesso nella serie e che marca i momenti di esplicita rottura del confine tra il mondo ri-costruito davanti all’obiettivo e il suo spettatore. Quest’ultimo viene chiamato in causa e trasformato in un complice delle azioni efferate compiute o commissionate da Frank Underwood (Kevin Spacey) e da Claire Underwood (Robin Wright) per raggiungere i vertici del potere politico americano.
Alla dichiarazione citata e alla costruzione della sequenza fanno da controcampo le parole rassicuranti e le immagini di apertura dell’ultima stagione da poco terminata. Il set è uno dei salotti della Casa Bianca, davanti alla telecamera c’è solo Claire che con tono affabile garantisce ai suoi elettori che lei e suo marito vogliono proteggere l’America. A loro il popolo americano potrà e dovrà raccontare tutto ciò che vede («Tell us what you see»). Sorvegliarsi a vicenda: è questo l’imperativo morale a partire dal quale rifondare il senso di appartenenza a una comunità. Proteggersi, sentirsi al sicuro, fino al punto da rinunciare alla propria libertà.
La sicurezza è uno dei beni primari che la serialità degli ultimi anni ci consegna, raccontando ed estremizzando le paure continuamente alimentate dalle immagini che scorrono sui nostri schermi. Ma al di là di questa ricerca e nonostante la denuncia dei suoi rischi, sembra quasi impossibile trovare storie alternative, altre immagini, immaginare nuovi sguardi sulle comunità che ci apprestiamo ad incontrare.
Riferimenti bibliografici
R. Esposito, Immunitas: Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992.