La prima cosa che si vede nel primo lungometraggio di Scorsese, Chi sta bussando alla mia porta (1967), è la statuetta di una Madonna con bambino sul mobile di una cucina dove una donna (la madre del regista) sta preparando un polpettone che poi divide tra cinque bambini; la scena ha un’indubbia solennità, malgrado la colonna sonora (un giro di batteria ossessivo), e contrasta con la sequenza successiva: un pestaggio in strada. Il film finisce con un montaggio psichedelico in cui le statue di una chiesa si alternano a brevi flash erotici. Il protagonista Charlie (Harvey Keitel) va a confessarsi, bacia un crocifisso e si ferisce un labbro; in colonna sonora si sente una profana e straniante canzone in stile doo-wop, Who’s That Knocking dei Genies.

Tutto il cinema di Scorsese è già lì, ed è curioso che non se ne parli nei Dialoghi sulla fede tra Martin Scorsese e Antonio Spadaro, appena pubblicati da La nave di Teseo. Forse quelle sequenze sembrano troppo didascaliche (anche se all’epoca ovviamente non lo erano). Forse Scorsese ha fatto troppi film da allora, e non c’era spazio di ricordare quell’esordio. Ma anche leggendo gli altri libri-intervista che sono usciti nel corso degli anni, non se ne trova quasi traccia. Solo Mary Pat Kelly, che è un’ex suora, si sofferma sullo shock che suscitò in lei l’ultima sequenza di Chi sta bussando alla mia porta. Forse affermare che tutto quello che è seguito era già lì, sembrerebbe sminuirlo. Mentre Scorsese vuole che il suo cinema sia letto come una continua ricerca, come un Pilgrim’s Progress o come l’imitatio Christi di un peccatore che spesso sbaglia ma ogni volta fa un passo avanti, anche con i suoi errori. È una chiave di lettura suggestiva, anche se non va dimenticato che è solo una delle tante possibili, e che i film appartengono tanto a chi li vede quanto a chi li ha realizzati.

Se c’è una cosa che caratterizza Scorsese è il fatto che, più di qualunque altro regista del suo tempo, egli ha costruito nel corso degli anni una lettura in chiave biografica della propria opera e l’ha servita ai critici, sottolineando costantemente gli episodi che hanno forgiato la sua sensibilità e il suo amore per il cinema: l’infanzia in un quartiere difficile, Little Italy; lo spettacolo quotidiano della violenza nelle strade; il doppio rifugio offerto dalla chiesa e dal grande schermo; l’incontro con un prete cattolico carismatico e culturalmente avanzato, padre Frank Principe; il breve episodio di una vocazione interrotta. E Scorsese è stato sempre il primo a suggerire di leggere i propri film (o almeno alcuni) come allegorie di un percorso religioso. È sicuramente una imitazione di Cristo sui generis il calvario autodistruttivo di Jake LaMotta in Toro scatenato. E sulla ricerca della grazia, il suo arrivo inaspettato, la necessità di perdonare e perdonarsi, insiste spesso nelle conversazioni con Spadaro.

Ovviamente ci sono tanti film di Scorsese che non possono essere calati in una tematica cattolica o che addirittura ne sembrano la negazione, a partire da Taxi Driver. Mary Pat Kelly si arrampica sui vetri per reperire fragili metafore religiose in Fuori orario o Il colore dei soldi; Spadaro non ci prova neanche a trovare un fondo cattolico in Casinò o in The Wolf of Wall Street. Anche se si potrebbe sostenere che ogni volta Scorsese sconta i film amorali, dove Dio è assente, con film più esplicitamente penitenziali. Come Silence, cui è dedicato buona parte di Dialoghi sulla fede.

Non è indifferente che a far parlare Scorsese, in questo libro, sia un teologo gesuita. Nel Secondo dopoguerra una parte della cultura cattolica italiana ha cercato di confrontarsi con il cinema e di portarlo dalla propria parte, valorizzando i temi spirituali di certi film e registi, a costo di forzature o addirittura censure: basti pensare alla spiritualizzazione imposta a Ingmar Bergman tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta, tra tagli e modifiche ai dialoghi dei suoi film. Ampiamente noto è il confronto del mondo cattolico con Fellini e Pasolini, non sempre facile ma a volte sorprendente. E oggi c’è un papa che, per la prima volta nella Storia, cita un film come La strada tra le massime realizzazioni dell’arte del Novecento. Ovviamente, in una sensibilità mutata come quella odierna, Spadaro cerca di evitare sovrainterpretazioni e censure plateali: ma è evidente che preferisce ignorare i film che incrinerebbero l’immagine di un regista dotato come pochi di una sensibilità spirituale e della capacità di vedere il cinema come uno strumento per la conoscenza di se stessi e per porre grandi domande che spesso sembrano messe da parte dalla cultura contemporanea.

Certo, lo Scorsese di Dialoghi sulla fede può sconcertare o deludere il cinefilo. Se si cerca una storia della produzione dei film e dello scomodo ruolo di Scorsese nel sistema produttivo cinema americano, è meglio rivolgersi ai libri precedenti (anche se con Spadaro parla a lungo della difficoltà di realizzare Silence). Ma va anche detto che con gli anni è inevitabile che un regista cambi atteggiamento riguardo le proprie opere (“La gente cambia”, dice un personaggio di Sfida nell’Alta Sierra di Peckinpah citato nel libro). Anche L’ultima tentazione di Cristo, così centrale nelle interviste precedenti, oggi comincia ad apparire a Scorsese un pochino più lontano, nell’imminenza di una serie televisiva sulla vita dei santi, che realizza un progetto di oltre quarant’anni fa. E nell’abbozzo di un metafilm sulla rappresentazione di Gesù che chiude il libro, è prevista una scena di sesso tratta da Casinò, ma nessuna di L’ultima tentazione.

Oggi sono due le sequenze in cui Scorsese sembra vedere la chiave del proprio cinema. La prima è il finale di The Irishman, in cui il vecchio gangster assassino Frank Sheeran (Robert De Niro), in una casa di riposo, incapace di articolare a parole la sua vita interiore, sente il peso di quello che ha commesso ma non riesce a confessarsi; e si limita a dire al prete con cui parla di lasciare aperta la porta della sua stanza. La seconda è la scena di Silence in cui padre Rodrigues (Andrew Garfield) è costretto dai persecutori giapponesi a calpestare un’icona di Cristo per salvare la vita propria e altrui ­– un gesto dimostrativo chiamato fumi-e o yefumi. Il gesuita del XVII secolo rinnega la propria fede, ma sente proprio in quel momento la voce di Cristo che lo incoraggia, e forse trova una fede superiore.

Il cammino verso l’elevazione spirituale è sempre tormentato e contraddittorio, ma il cinema di Scorsese si è fatto più intimo. Non rinnega la violenza, e anzi, in queste pagine, Scorsese parla spesso della violenza come parte ineliminabile della vita, che va rappresentata e non spettacolarizzata e edulcorata, come invece succede nei film di John Woo. Anche Silence e Killers of the Flower Moon sono pieni di violenza. Ma quest’ultima non è più travolgente, esaltante e catartica come in Taxi Driver. Oggi, forse, il protagonista di Mean Streets direbbe (è la frase iniziale, assente dall’edizione italiana): “I peccati non si scontano al cinema. Si scontano per le strade, o a casa tua. Il resto sono tutte stronzate”.

Riferimenti bibliografici
I. Christie, D. Thompson, a cura di, Scorsese secondo Scorsese. Nuova edizione aggiornata, Ubulibri, Milano 2003.
U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1992.
M.P. Kelly, Martin Scorsese. Un viaggio, di prossima pubblicazione presso La nave di Teseo.
M. Scorsese, Conversazioni con Michael Henry Wilson, Rizzoli, Milano 2006.
M. Scorsese, R. Schickel, Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani, Milano 2011.

Martin Scorsese, Antonio Spadaro, Dialoghi sulla fede, La nave di Teseo, Milano 2024.

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