Nell’Oklahoma degli anni venti, nella riserva indiana degli Osage si moltiplicano i pozzi petroliferi; i nativi ne sono proprietari ma i bianchi volteggiano sulla contea come avvoltoi. Di questi ultimi, Hale (Robert De Niro) è il più famelico; si fa chiamare addirittura Re e coltiva amicizie tra gli Osage, ma dietro una facciata paternalista nasconde i più sordidi appetiti per i giacimenti petroliferi. Quando suo nipote Ernest (Leonardo Di Caprio) torna dalla guerra e gli chiede lavoro, Hale si trova di fronte un sempliciotto manipolabile e decide di utilizzarlo per i propri scopi: favorendo il matrimonio tra Ernest e l’indiana Mollie (Lily Gladstone), figlia di una delle famiglie di proprietari dei pozzi, Hale prova a portare verso di sé l’asse ereditario; nel frattempo, Mollie ed Ernest mettono su famiglia, nonostante la donna sia debilitata dal diabete.
L’ultimo film di Scorsese comincia con un rito della tribù degli Osage, intenti a sotterrare il calumet Niniba e a prendere commiato dalla propria cultura. Il film si conclude con un altro rito, una danza sacra degli Osage ripresa dall’alto, geometrizzando l’azione coreutica come nelle inquadrature zenitali dei musical di Busby Berkeley. I due segmenti incorniciano un racconto della durata di quasi tre ore e mezza (per minutaggio, è il film più esteso di Scorsese dopo The Irishman) e sono più che sufficienti a collocare Killers of the Flower Moon sulla linea di ricerca del sacro che attraversa tutta la filmografia di un cineasta definitosi “uomo di fede” che crede nelle immagini.
Secondo David Sterritt, che ha riflettuto sul sacro in Scorsese, le caratteristiche di uno sguardo cattolico sulle cose sono fondamentalmente tre: l’importanza assegnata alle narrazioni rituali, il significato attribuito agli oggetti rituali e il conferimento di uno status rituale. La cornice del film è allora l’indizio di un incessante lavoro su una triangolazione valoriale etico-estetico-sacro. Il corpo del film assume le sembianze della forma tragica, ma soltanto nella visione ineluttabile e non nella struttura, che rifiuta di blandire il pubblico con l’alternanza di cariche positive e negative, di fortune e sfortune.
La fortuna degli Osage, il petrolio che zampilla nell’istante in cui seppelliscono il calumet, è già una sfortuna, è il diabolus ex machina di una storia in cui ci saranno soltanto vittime e carnefici. Quando Scorsese interviene sullo script di Eric Roth, per prima cosa mette ai margini l’indagine dell’FBI sui fatti di Osage County; come lo stesso regista ha dichiarato in un’intervista al British Film Institute, “non si trattava di stabilire chi fosse stato [il colpevole], perché nel momento in cui si vedono questi personaggi sullo schermo, si capisce chi è stato”. Non è un film di detection, ma di scelte morali.
Quando arriva la giustizia è troppo tardi, chi si poteva redimere non lo ha fatto, chi poteva scegliere tra il bene e il male ha scelto il male. Le vittime, invece, sono state sacrificate in nome di qualcosa che non hanno davvero compreso; assuefatte alla sconfitta, hanno offerto il collo al boia. Dunque, la struttura drammaturgica lineare della sceneggiatura, del tutto scevra dalla temporalità non vettoriale che spesso caratterizza l’epica scorsesiana, sembra assumere il valore di una dichiarazione politica. Neanche si creano le condizioni, nel punto di incandescenza tematica dello scioglimento, per chiedere un perdono.
Nel pieno della stagione del western revisionista, un finale come quello di Soldato blu (Nelson, 1970) consentiva almeno a un personaggio di accedere in extremis alla dimensione eroica e di redimersi dal peccato della violenza e della sopraffazione: la carezza di Candice Bergen al volto di Peter Strauss, militare trascinato in catene dai suoi stessi commilitoni per insubordinazione, è la carezza del perdono. Al personaggio di Leonardo Di Caprio in Killers of the Flower Moon non si concede quella carezza. Nella scena che fa seguito al processo dei carnefici, Mollie chiede al marito che cosa ci fosse nelle fiale che dovevano curarla dal diabete e che invece l’hanno quasi uccisa: “Insulina”, risponde l’uomo, e qui cessa qualunque possibilità di redenzione e di assoluzione.
Se alcuni personaggi scorsesiani hanno tentato di vivere rispettando delle regole morali in un mondo che ne è privo, il protagonista di questo film non ha mai davvero tentato di farlo, e fino all’ultimo non se ne prende davvero la responsabilità. In questa scena c’è in gioco moltissimo, c’è in gioco la statura morale del film, e il film ne esce come un gigante perché sceglie di condannare il male radicale incarnato da Robert De Niro, un burattinaio rivoltante, ma anche e soprattutto la banalità del male che caratterizza il personaggio di Leonardo Di Caprio.
Resta da riflettere su cosa accada quando del tragico si tiene soltanto lo scioglimento, senza aderire alla poetica del nodo. Ciò che emerge al massimo grado, nel film, è la comunità di Fairfax: le case, i negozi, i locali dove si gioca e si alza il gomito, le agenzie assicurative, i pozzi petroliferi, la chiesa – il mondo narrativo. La realtà sociale di matrimoni misti che non significano integrazione ma inganno, raggiro, sopraffazione, è analizzata in dettaglio; il congegno della documentalità (contratti, prelazioni, concessioni) procede inesorabile all’accerchiamento dei nativi americani, tanto quanto il congegno degli omicidi a pagamento. La musica di questo mondo maledetto è il blues, quel blues che una volta Scorsese definì “qualcosa che viene da molto, molto lontano, qualcosa di eterno, di elementale, qualcosa che sfida il pensiero razionale”; parte di questa musica è anche il testamento di Robbie Robertson, figlio di madre indiana Mohawk, leggendario artista venuto a mancare pochi mesi fa. Nel blues suonato e selezionato da Robertson, che riempie ogni piega del campo sonoro, c’è tutta la sofferenza, l’esclusione e il dramma universale degli oppressi di ogni latitudine.
Riferimenti bibliografici
P. Guralnick, R. Santelli, H. George-Warren, a cura di, Martin Scorsese Presents The Blues: A Musical Journey, HarperCollins, New York 2011.
D. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, a cura di, A Companion to Martin Scorsese, Revised, Wiley, Hoboken 2021.
Killers of the Flower Moon. Regia: Martin Scorsese; sceneggiatura: Martin Scorsese, Eric Roth; fotografia: Rodrigo Prieto; montaggio: Thelma Schoonmaker; musiche: Robbie Robertson; interpreti: Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser, John Lithgow, Tantoo Cardinal; produzione: Appian Way, Apple TV+, Imperative Entertainment, Sikelia Productions, Paramount Pictures; distribuzione: Apple Original Films, Paramount Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 206’; anno: 2023.