È lecito chiedersi se Silence sia un film sulla fede. Lo crede Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica, che ha curato una lunga intervista al regista, Martin Scorsese.

D’altronde non è la prima volta che il regista italo-americano incrocia la questione: ex seminarista dei gesuiti, Scorsese fece scandalo nel 1988 con l’uscita de L’ultima tentazione di Cristo, dove il messia è dubbioso se sacrificarsi sulla croce.

Il desiderio di sottrarsi alla propria missione attraversa anche questo film, tratto dall’omonimo romanzo (Chinmoku, 1966) dello scrittore cattolico giapponese Endo Shusaku (1923-1996). Due giovani gesuiti, padre Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Francisco Garupe (Adam Driver), giungono nel Giappone del XVII secolo, un paese che sta ritrovando l’unità chiudendosi a influenze straniere. La missione dei due gesuiti è quella di ritrovare il loro antico maestro, padre Ferreira (Liam Neeson), scomparso e sospettato di aver abiurato.

Il film si apre in Portogallo, con i due gesuiti che devono convincere il loro superiore a lasciarli partire alla ricerca di padre Ferreira. Quando i tre scendono una scalinata, ecco che la macchina da presa li riprende dall’alto, schiacciandone le figure in quella che Merleau-Ponty avrebbe potuto definire come una “visione di sorvolo”. È uno sguardo assoluto, che non consente resti oltre l’immagine: è la visione di un dio metafisico.

C’è però un altro dio: è sempre il dio dei cristiani, ma secondo il punto di vista delle autorità giapponesi, che obbligano i convertiti a calpestare un’immagine del Cristo o della Madonna come segno di abiura. Non è un dio metafisico e invisibile. Il dio cristiano che ha in mente l’inquisitore giapponese Inoue (Issei Ogata) è un dio in immagine, sensibile. Un dio-idolo che si adora o si abbatte con gesti e segni esteriori. Ma questa logica “pagana” fa cortocircuitare la logica “cristiana”, perché quella immagine è anche la figura del divino più prossima all’idea di incarnazione, di “abbassamento” di dio nel mondo e nella carne. E nel gesto con cui lo rinnegano schiacciandone il volto col piede, i contadini cristiani – che avevano salutato nell’arrivo dei giovani gesuiti la possibilità di riavere il rito magico, “pagano”, dell’ostia consacrata – trovano un’autentica comunione con il dio compassionevole di cui hanno abbracciato la fede.

Non è un caso se Kichijiro (Yosuke Kubozuka), la guida dei gesuiti, entra in un abisso di abiure e pentimenti, da cui spera che padre Rodrigues possa assolverlo mediante la confessione. Non è un caso nemmeno che sia proprio il mistico e visionario Rodrigues a condividere il paradosso della fede nel dio di un perdono che solo il rito dell’abiura attraverso un’immagine può far emergere, non l’intransigente e dottrinario Garupe che morirà pur di non abiurare.

Il Cristo di Rodrigues è, di nuovo, un’immagine del dio fattosi uomo per condividere le sofferenze del mondo. Si tratta infatti della reminiscenza ossessiva di una raffigurazione del volto di Cristo – un uomo giovane, con la barba e l’espressione mite, in cui Rodrigues può facilmente immedesimarsi – che accompagna da sempre il missionario. In preda alla sete, lo vede materializzarsi nel fiume dove sta per abbeverarsi. È l’immagine di uno specchio ideale: è il Cristo della “sequela” che Ignazio di Loyola e i suoi seguaci ereditano dalla imitatio Christi e dalla devotio moderna. Nel tentativo di seguire questo modello di perdono, padre Rodrigues finisce per perdersi, abiurando la sua fede, diventando lui stesso peccatore, smarrendo il rapporto tra immagine, idea e realtà.

Si potrebbe pensare che Silence è un film sulla fede, dunque, anche se di una fede che si manifesta interamente attraverso le sue diverse immagini. Ma non è così, o lo è solo in via subordinata. Silence è soprattutto un film sul potere delle immagini, se si vuole sul potere che le immagini hanno non solo di veicolare ma soprattutto di far prevalere alcune idee contro altre. Toccando il cuore stesso della fede in dio nella sua immagine rinnegata, padre Rodrigues incontra un’altra logica dell’uso delle immagini, quella del potere dell’inquisitore Inoue che deve riportare l’ordine nell’impero eliminando ogni presenza cristiana sul suo territorio.

Il film non si limita a raccontare una storia, vera o verosimile: esso ci fa comprendere cosa sia un potere che agisce con efficacia, ci fa entrare all’interno della logica attraverso cui il potere diventa azione. Con il gesto dell’abiura, con la richiesta di calpestare un’immagine sacra, il potere attiva, in effetti, la potenza della compassione e del perdono cristiano. Ma è proprio manipolando quella potenza che l’inquisitore giapponese riesce ad avere ragione della fede di padre Rodrigues.

Nella prigione l’inquisitore mette su un vero e proprio dispositivo teatrale, a uso e consumo del suo prigioniero prete cristiano: uno spettacolo del dolore, della crudeltà e della compassione. Una schietta manipolazione di quell’immagine del dio redentore, che padre Rodrigues conserva nella sua mente come via d’accesso al trascendente.

L’inquisitore, da abile regista, attrae il suo spettatore, esteriorizza quella immagine fissa che egli porta nella memoria, gli dà un’apparenza concreta e soprattutto un dispositivo che ne mette in opera la potenza, un ambiente dove essa dispiega il suo potere di evocare il terrore, la morte, la sofferenza, ma anche il perdono, la rassegnazione, la compassione. E così, senza torcergli un capello e mostrandogli solo la possibilità del male, minacciato o esercitato su altri, Inoue ottiene la conversione di Rodrigues, che da quel momento entra al suo servizio come “ideologo” e polemista anti-cattolico.

In una scena precedente i due avevano discusso sulla verità e sulla sua relatività: il gesuita, naturalmente, è a favore dell’universalità e dell’assolutezza della verità, che è per lui la fede cristiana; il giapponese crede che ogni luogo (ogni paese, ogni cultura) sia un terreno su cui attecchisce una pianta diversa, una diversa concezione della verità. Ma il film non dà ragione né all’uno né all’altro, né considera le rispettive confutazioni. E dunque, forse, non è un film sulla fede, sul credere e sulla verità. Il film suggerisce piuttosto il fatto che prevale sempre chi sa usare il potere delle immagini. L’inquisitore Inoue ha saputo disporre il suo “montaggio delle attrazioni”, tutto giocato tra campo (la prigione) e fuori campo (la realtà fuori), fino ad attrarre a sé la sua vittima.

Ma c’è un ma. Il film si conclude quando padre Rodrigues, assimilato dalla cultura giapponese, ormai vecchio muore. La moglie giapponese che ha dovuto sposare lo depone nel cilindro che gli fa da feretro. E noi vediamo allora che porta ancora tra le mani il crocifisso che gli era stato donato durante la prigionia. Ha vinto la fede, allora, anche se dissimulata?

Infine Silence è un film sulla fede? Lo può essere, ma a una condizione. Quel crocifisso è l’immagine del fatto che forse la fede è rimasta viva nel cuore di Rodrigues. Ed è un’immagine che solo il cinema ci può mostrare: l’immagine di un segreto che il gesuita era riuscito a serbare lontano dagli occhi di tutti i suoi “sorveglianti” durante gli anni di soggiorno forzato in Giappone. È l’immagine che solo un dio può scrutare. Ma non il dio “aereo” e metafisico dell’inizio del film, che schiaccia le figure con il suo sguardo. Un dio, potremmo dire barocco, che si infila nelle pieghe dell’esistenza, che scruta i cuori ma anche i dettagli dell’essere. Un dio intimo, non più solo interiore ma carnale, anche se estraneo alle “attrazioni” della propaganda. Un dio che solo l’occhio del cinema poteva restituire, disfacendo d’un colpo all’ultima inquadratura tutte le figure del divino che ha attraversato nel corso del film.

Riferimenti bibliografici
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2014.
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 2004

Share