A due anni dalla morte di Daniele Del Giudice, vengono raccolti in volume alcuni dei tanti saggi letterari scritti da uno degli autori più interessanti, e il più attento a come raccontare, della generazione che esordì negli anni ottanta, saggi che mettono in luce le coordinate della scrittura di Del Giudice. Il suo atto narrativo sempre essenziale, incisivo – come ho provato a dire in un breve pezzo apparso su questa stessa rivista –, veniva da una riflessione più dispersiva, girovagante, a tratti ossessiva: quella che emerge in Del narrare. Il libro si compone di due parti, la prima dedicata agli scrittori più cari a Del Giudice, che formano una sorta di genealogia della sua prosa: Calvino, ovviamente (che lo lanciò con Lo stadio di Wimbledon), poi Levi, Magris, Svevo, Zweig, Bernhard, Freud, Stevenson, Conrad e Verne. La seconda parte riporta una serie di scritti che ruotano attorno all’atto della narrazione, alla forma-romanzo secondo Del Giudice, anche se ovviamente nella seconda parte molti scrittori ritornano e altri se ne aggiungono: McEwan, Pasolini, Volponi, Vittorini, Montale, Leopardi… – brillante il parallelo tra Kafka e D’Annunzio (Del Giudice 2023, pp. 239-40).
È interessante l’intreccio tra gli scrittori indagati, per cui ognuno è modello di un altro: Conrad soprattutto, e Stevenson (importanti per lui come per Levi e Calvino, ripreso parlando di Zweig); Svevo (caro a Calvino, Magris); Zweig e Bernhard (Magris), Freud (Magris, Svevo). Una mappa letteraria fatta d’incroci, rimandi, i modelli di Del Giudice che sono anche modelli dei suoi modelli. Una genealogia al cubo che restituisce se non l’aria di famiglia, l’idea di famiglia. Ma ancor più interessante è il continuo tornare di Del Giudice stesso su questi autori mentre parla di uno di essi, evocando paralleli, rimandi o divergenze tra i suoi modelli-parenti e, spesso, ampliando lo sguardo su autori inaspettati (Stephen King mentre parla di Levi, ad esempio). A dominare – ovviamente – sono le questioni che interessano il Del Giudice narratore: il tema della precisione, della descrizione puntuale di oggetti e realia, fino al rapporto tra letteratura e tecnologia e scienza (Conrad, Levi, Calvino, Verne, Stevenson), apparentemente “cura” per la malattia delle parole (invero incurabile) che colpisce gli scrittori (Bernhard e Freud, ma si pensi alla «peste del linguaggio» calviniana).
Centrale, ovviamente, il rapporto tra realtà e scrittura. Per Levi insiste sulla funzione molteplice della testimonianza: non solo quella reale del sopravvissuto, del traumatizzato, ma anche punto di snodo dal quale prende avvio il racconto (finzionale), come in La chiave a stella. Anche qui si situa la natura ambigua di Levi («Centaura e anfibia è l’opera di Levi», ivi, p. 35), sospeso tra letterario e scientifico, tra memoria e invenzione (i racconti fantascientifici, di recente ripubblicati da Einaudi), realtà e fiction. Un tratto caro al “secondo” Del Giudice, quello di Mania, Staccando l’ombra da terra (dove trova spazio l’attentato di Ustica) e Orizzonte mobile. Cronaca, memoria, testimonianza e invenzione si affrontano in quelle opere nel passaggio da un racconto all’altro, da una ricostruzione d’un evento o una figura storica a un brano di esperienza vissuta in prima persona a un racconto pienamente finzionale, ma anche all’interno dei diversi racconti. Perché, come scrive parlando di Levi, raccontare il reale richiede «non minore phantasia, non minore creazione e costruzione che il racconto di un sogno». Un intreccio, poi, che già si trovava nell’esordio narrativo di Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon. Ma lì il piano “letterario” convergeva in modo esplicito soprattutto sulla forma, sull’espressione, sul dictum. Basato su taccuini era anche il secondo romanzo, Atlante occidentale, dove però il passaggio all’invenzione è totale. Nei tardi anni novanta i due piani, invece, s’affrontano in un equilibrio precario: ora nella phantasia viene coinvolto anche il factum, e i codici – scientifici e letterari – cercano di sussumere la dicotomia e, se non risolverla (parlando di Calvino, scrive: «Alla fine del racconto resta tutt’al più una cicatrice là dove c’era una ferita». Là, tra letteratura e vita). Il punto di caduta tra «mimesi e phantasia» (ivi, p. 173), insomma.
Dunque, come spesso accade, Del Giudice parlando d’altri parla anche di sé (di sé come scrittore). L’idea di «lavoro ben fatto» (ivi, pp. 31-41) che traligna dalle professioni concreto-artigianali (Faussone in La chiave a stella, lo stesso mestiere di chimico di Levi) a quelle artistico-narrative (lo «scrivere chiaro» cui Levi puntava sempre), riflette una simile esigenza di Del Giudice: la composizione di testi ordinati, calibrati secondo un ideale di eleganza (intesa come s’usa in matematica: la soluzione insieme più efficace e più semplice) formale, strutturale ed espressiva insieme. Ancora, la letteratura come serbatoio di domande, più che di risposte (ossia: di osservazioni del mondo). Così Calvino è uno «scrittore di formazione» perché scrive anzitutto con l’obiettivo di chiarire a sé e quindi al suo pubblico un problema e nei suoi racconti punta non a mostrare una soluzione, ma a esporre un ventaglio di possibili soluzioni. «Non risolverà mai il problema che si è posto, anzi si guarderà bene dal farlo alla fine del proprio racconto, altrimenti […] diventerebbe uno scrittore “formato”» (ivi, p. 57). Tensioni irrisolte, ma non esplose.
Il romanzo, come si legge nel primo saggio della seconda parte è infatti una «zona» o «campo di energie», «zona di detriti, […] di quel che emerge ai limiti del già conosciuto, informe, appena nato» (ivi, p. 168), che combina istanze diverse come io e mondo, percezione del reale e affetti, soggetto e società (ivi, p. 171). Una visione che sperabilmente aiuterà a sottrarre una volta per sempre Del Giudice dal campo dei narratori autocentrati: «Già allora, in quegli anni Settanta, a me sembrava chiaro che le questioni non erano più all’interno della letteratura e delle sue “rotture formali”, ma tra la letteratura nel suo insieme e gli altri linguaggi», insomma «tra la letteratura e il fuori da sé» (ivi, p. 177, pp. 180-181). Non esclude il primato della forma, l’investigazione letteraria è sempre «formalizzante» (ivi, p. 185), ma la mette al servizio di altro (siamo nell’ambito della letteratura come stilizzazione che modellizza e perciò stesso rende visibile ciò che altrimenti è disperso e invisibile). Qui è il passaggio da «narrare» a «vedere» (ivi, pp. 207-215), che andrebbe letto in trasparenza e – come risposta, anche – al Lukács di Narrare o descrivere? Quella narrativa dunque è operazione formalizzante ma non (freudianamente) razionalizzante: senza piombare nell’orfismo, Del Giudice riconosce il «misterioso» passaggio che rende narrativamente «dicibile l’indicibile» (ivi, p. 194).
Qui, in questa tensione formale e discorsiva, Del Giudice vede la distanza tra la narrativa modernista e la successiva: la prima oramai «si è compiuta nella sua forma» (ivi, p. 229), la seconda si muove in uno spazio differente. Non è quello – ispirato appunto all’idea highbrow di letteratura primonovecentesca, ripreso ad esempio da Kundera – che considera la narrazione intrinsecamente «più illuminante» di altre forme espressive, ma uno che ne vede le potenzialità di sintesi: capace di «tenere la stessa complessità» del cinema o della scienza «nel modo più comunicativo, e chiaro e fantastico […] con una propria leggerezza» (ivi, p. 229). Dunque, non stigmatizza la «comunicazione»: nessun peana per i bei tempi (letterari), nemmeno travestito da cinismo prono a giudizi di valore – improntati sempre all’idea modernista di letteratura – come fa invece un Simonetti, che rivela in ciò il proprio senso d’insignificanza rispetto ai suoi padri normalisti, quando ad esempio in Caccia allo Strega osserva sconsolato che «oggi il bello si decide a maggioranza» (ivi, p. 12).
E nessun malanimo per i lettori: anche se oggi sono anzitutto, scrive Del Giudice, spettatori. Non li vede schiavi di una mutazione culturale o antropologica governata dal “mercato”, ma figli del proprio tempo cui lo scrittore deve parlare non tanto o solo per avere successo, ma perché quello e non altro è il suo pubblico. La sfida di narrare in un mondo dove la narrativa è decentrata non è nuova, ci ricorda: è questo il primum della forma-romanzo sin dalle origini, da Rabelais e Cervantes, quando stava ancora nascendo e già era una forma che ingoia le altre, un linguaggio che ingoia altri linguaggi, non per digerire tutto in un’omogeneità (letteraria), ma per sfruttarne la differenza di potenziale creando appunto un campo di forze, di tensioni irrisolte e irrisolvibili, storicamente determinate, che sempre “fanno” il romanzo (e Del narrare analizza queste forze con la precisione di uno spettrometro). Come le tensioni, emotive e relazionali, “fanno” la vita d’ognuno: se elaborate – contenute – ci danno energia (ci danno un romanzo, si fanno narrazione), se le rimuoviamo o proiettiamo – o se ci sopraffanno – ce la tolgono e ci tolgono quel narrare equilibrato, pur nello squilibrio di cui parla Del Giudice.
Riferimenti bibliografici
G. Simonetti, Caccia allo Strega, Nottetempo, Roma 2023.
Daniele Del Giudice, Del narrare, Einaudi, Torino 2023.