I testi di Daniele Del Giudice avevano la nitidezza di certe giornate invernali, quando attraverso l’aria è tersa la luce evidenzia ogni spigolo del mondo e i contorni dei palazzi di periferia. Non una luce che mostra qualcosa d’invisibile o che cade sulle cose rinnovandole: una luce che enuclea gli elementi. La poetica di Del Giudice è innanzitutto una poetica delle cose, o meglio delle cose in relazione agli uomini, di come quelle possano aiutarci a comprendere questi. Il dettaglio, la descrizione, non spersonalizzano, non de-umanizzano: rivelano anzi la relazione tra umano e inanimato. Così alla fine di Atlante occidentale (1985) il plastico dell’area di Ginevra dove si svolge il romanzo racchiude, concentra, ciò che è fuori. Stilizza e rende comprensibile: il gesto umano di capire, la prerogativa sistematizzante che concepisce le cose in una rete di relazioni. Dunque fuori dalla fenomenologia pura: l’umano come misura delle cose perché è l’uomo che misura.
Infatti quando la particella tanto cercata viene infine rilevata nei laboratori sotterranei del CERN di Ginevra (e trent’anni dopo quella scena si sarebbe realizzata davvero, quando venne infine rilevato il bosone di Higgs) non è la particella che il fisico Brahe vede, ma la sua traccia su grafici, tabulati, schermi. La capacità di vedere oltre la forma, si legge nel romanzo, di toccare con la mente quell’essenza che ci viene offerta però solo tramite i linguaggi formalizzati: letterario, scientifico, poco importa. In ogni caso si ricostruisce un dicibile nell’indicibile, si estrae la comprensione in ciò che appare incomprensibile.
Nel gesto che ho chiamato sistematizzante Del Giudice mostra il suo legame con due autori della generazione precedente, Italo Calvino e Primo Levi. Per tutti e tre, infatti, il discorso letterario è un discorso razionale: che non vuol dire algido, né distaccato, non vuol dire meccanicamente consequenziale nel suo svolgimento (basti richiamare la definizione di fantastico da biblioteca che Foucault riservò a Calvino). La mente dello scrittore razionale osserva, indaga, separa, isola. Conosce tramite un procedimento indiziario, che per ricostruire il tutto ha bisogno di partire dalle singole parti, travalicandone la finitudine in un quadro coerente. Anche l’animo umano: forse, anzi, l’animo umano più di ogni cosa.
Quanto più gli abissi, le imperfezioni del vivere diventano lampanti, quanto più si accumulano i segni di ciò che una volta Calvino definì «lo sconquasso generale» (scil. il consesso delle vite umane), tanto più lo scrittore razionalizzante accoglie quell’abisso, lo esplora, lo seziona e non tanto lo controlla (utopia o ingenuità), ma lo mette in scena e gli ridà senso — lo rifunzionalizza. Calvino con le sue città che diventano metafore, o con i sensi che appunto scompongono e ricreano il continuum del reale e ce lo offrono; Levi tanto con la tassonomia del Sistema periodico o quella, più brutale, dei Sommersi e salvati, ma non meno con i suoi racconti di fantascienza; Del Giudice con le descrizioni di Lo stadio di Wimbledon o con le strumentazioni di bordo degli aerei di Staccando l’ombra da terra.
Se a partire dagli anni Ottanta il fascino dell’irrazionale ha progressivamente occupato l’etere concettuale italiano (dalla Crisi della ragione, all’interesse per il Barocco, fino alle concezioni simil-messianiche o almeno simil-mistiche della letteratura per esempio di Moresco o Genna: il letterario come mezzo per compiere quel salto che la ragione non può compiere, e abbracciare finalmente il Tutto) Del Giudice segnala una sacca di resistenza, di alternativa. Non cedere all’informe, all’increato moreschiano, ma dialetticamente assorbire lo spazio contraddittorio del moderno.
Ecco, in questa resistenza della ragione di fronte ai buchi neri dell’umano c’è forse il tratto più einaudiano di questi autori. Che in Del Giudice era già evidente nel romanzo d’esordio, Lo stadio di Wilbledon (1983). Lanciato da Calvino (ma Calvino lanciò anche Andrea De Carlo), Wimbledon è un romanzo d’esordio che apparentemente manca del tutto di qualsiasi carica dirompente che si è soliti aspettarsi da un giovane esordiente. Costruito come indagine su, o ricostruzione di, una persona che nemmeno viene nominata, è fatto di incontri casuali, contrattempi, dialoghi spesso sospesi o obliqui, che però non sembrano mai indicare un altrove, un oltretempo o un oltremondo, ma anzi puntano sempre al qui-e-ora.
L’assenza dell’oggetto dell’indagine diventa presenza negli incontri con chi lo aveva conosciuto, così come apre nuove vie all’io narrante nel testo apre a Del Giudice la via del romanzo. Laddove la vita di Bobi Bazlen, il non scrittore, lo scrittore assorbito nel vuoto del non dire, diventa proprio l’elemento che consente di travalicare la contraddizione: la vita di chi non diventa scrittore è il viatico del nuovo scrittore. Che la vita alla base del romanzo sia quella del nume tutelare di Adelphi, l’anti-Einaudi per eccellenza, la figura che il compianto Roberto Calasso pone come fondativa della sua poetica antimoderna e irrazionalista, è sempre stato a mio avviso un esempio lampante di quell’ironia che il romanzo regala al mondo per vie inaspettate.
Questa razionalità non impedisce a Del Giudice di scendere a esplorare le contraddizioni insanabili, le antitesi irrisolvibili: il non-scrittore al centro di un romanzo, il mondo invisibile subatomico che diventa visibile, la traccia della vista in chi sta diventando cieco (Nel museo di Reims, 1988), diversi aspetti della follia (i racconti di Mania, 1997). Anche la commistione, tipica delle opere più tarde, di finzione e fatti realmente accaduti. Anzi, è proprio la razionalità che permette di esplorare queste contraddizioni senza sprofondarvi, di affrontare il mistero insolubile senza perdersi nel fascino colloso dell’ineffabile.
Perché quella ragione luminosa, di una luce a volte fredda, consente a Del Giudice di restare sempre sull’orlo della meraviglia per la scoperta, che è forse il vero centro di tutte le sue opere. La scoperta di un nuovo equilibrio, più leggero, librandosi nel cielo in Staccando l’ombra da terra, la scoperta di territori nuovi in Orizzonte mobile (2009), la scoperta interna alla materia che compie Brahe alla fine dell’Atlante, e così via. Questa scoperta nasce dal fatto che Del Giudice scrive sempre dal margine, dall’orlo, in bilico su un passaggio di stato: sul confine di una nuova era (Atlante), del silenzio totale di chi non scrive (Wimbledon), appena prima di scoprire nuovi luoghi (Orizzonte), appena prima di perdere la vista e di entrare nel buio (Reims), anche appena prima che un aereo precipiti vicino a Ustica (Staccando l’ombra da terra).
Oggi, quando tutti – politici, giornalisti, anche i romanzieri: per non parlare degli utenti dei social network – si appoggiano alla emotività pura e decomplessata, ricorrono al sottotesto mitico come alternativa al ragionamento per spiegare i fatti, una voce come quella di Daniele Del Giudice sarebbe stata preziosa. Siamo nell’epoca della hot cognition, e un po’ di luce fredda, tagliente, precisa, forse è quello che ci vuole.
Daniele Del Giudice, Roma 1949 – Venezia 2021