But let us note, too, how glory may flare, of a sudden, up, from the filth of the world’s floor
(epigrafe posta sulla sceneggiatura del pilot di Deadwood, tratta da un poema di Robert Penn Warren)
Credo ci sia un tempo per la caduta e che quel tempo poi vada riscattato
(da un’intervista di Alan Sepinwall a David Milch)
Se una storia della serialità western e delle sue forme resta ancora da scrivere, è indubbia l’importanza che in essa assumerebbe Deadwood. La serie tv creata da David Milch per HBO e trasmessa dal 2004 al 2006 costituisce infatti uno spartiacque – o meglio, come vedremo, uno spazio confine – nelle narrazioni seriali che hanno attinto a questo genere, rielaborandone forme e stilemi provenienti dalla letteratura e dal cinema.
Grazie al successo di produzioni longeve come Bonanza (1959-1973) e Gunsmoke (1955-1975), i western americani dominavano il prime time alla fine degli anni Cinquanta. Pur traendo ampia ispirazione dai modelli classici del genere, la serialità western, con l’arrivo degli anni Settanta, avevano contribuito a esaurirne le potenzialità di rigenerative. Queste serie tv erano degenerate nella ripetitività delle situazioni narrative, con personaggi stereotipati, l’appiattimento delle ambientazioni e la rimozione dei conflitti sociali. Al contrario del cinema, che vide un cambiamento del genere e un radicale ripensamento del mito del West grazie a registi come Peckinpah e Penn, la serialità western era dunque imprigionata in una morsa di immobilismo. Questa stagnazione si protrasse durante gli anni Ottanta e Novanta, con produzioni che, pur adoperando trame meno battute come ne I ragazzi della prateria (1989-1992) e La signora del west (1993-1998) o riattualizzando il western con serie tv come Walker Texas Ranger (1993-2001), non erano in grado di offrire un rinnovamento significativo del genere.
Deadwood contribuisce a una duplice rivoluzione: stravolge le convenzioni del western televisivo, ridefinendone lo statuto epistemologico, e si inserisce in un rinnovamento generale della serialità, i cui prodromi risalgono agli anni Novanta del secolo scorso (McCabe e Akass 2007). Partiamo da quest’ultimo aspetto, per poi indagare le strutture della serie tv. Deadwood condivide con I Soprano (1999-2007) e The Wire (2002-2008) le caratteristiche principali, tra cui una struttura narrativa complessa, il realismo della messa in scena, la predilezione per i protagonisti dalla moralità ambigua, la presenza copiosa di violenza, nudità e di un linguaggio volgare, che hanno permesso alle produzioni HBO di innovare la serialità televisiva degli albori del nuovo millennio, traghettandola verso un’era post-network. Le caratteristiche appena elencate e riassumibili nel famoso slogan “It’s not TV. It’s HBO” vengono apprezzate dal pubblico e dalla critica anche nel caso di Deadwood. La prima stagione raggiunge le vette della popolarità, diventando la seconda serie tv trasmessa da HBO più vista dopo I Soprano. Il plauso della critica garantirà inoltre alla serie la vittoria di diversi premi, tra cui otto Emmy Award e un Golden Globe.
Deadwood non solo si adatta a un rinnovato panorama seriale, ma utilizza le specificità dei contenuti targati HBO per re-immaginare il rapporto del western seriale con la storia e il mito della frontiera (Perlman 2011). Deadwood, come le successive John from Cincinnati (2007) e Luck (2011), è un’opera incompiuta. Il suo creatore, Milch, noto sceneggiatore di Hill Street Blues (1981-1987) e co-ideatore di NYPD – New York Police Department (1993-2005) con Steven Bochco, aveva infatti in mente un progetto articolato in almeno quattro stagioni. Al contrario, Milch ne realizza solo tre. L’epilogo, in forma di film sequel dal titolo Deadwood: The Movie, sarà distribuito, sempre da HBO, nel 2019. La lunga attesa – tredici anni dalla cancellazione della serie tv – non trova riscontro in un prodotto all’altezza della serie originale.
Il progetto iniziale di Milch, che aveva da tempo abbandonato Yale ma non i suoi studi di letteratura angloamericana, prevedeva un altro dramma poliziesco. Questa volta però la storia non sarebbe stata ambientata a Los Angeles o a New York, bensì nella Roma governata da Nerone. La HBO, già impegnata nella coproduzione con la BBC di Roma (2005-2007), non era convinta della proposta e persuase Milch ad esplorare gli stessi temi ma in una differente ambientazione (Lavery 2006). «L’idea di analizzare come il sorgere di qualunque civiltà corrispondesse alla conquista della leggi per tutelarla» (Sepinwall 2014, p. 154), viene dunque trasposta dalla Roma imperiale all’epoca dell’espansione a Ovest degli Stati Uniti. La serie viene infatti ambientata a Deadwood, insediamento tra le Black Hill (odierno Sud Dakota) nato illegalmente sul finire dell’Ottocento, in piena caccia all’oro. I protagonisti sono l’ambiguo e astuto proprietario del saloon locale Al Swearengern, dedito a un nutrito catalogo di comportamenti immorali, tra cui lo sfruttamento della prostituzione, e lo sceriffo Seth Bullock, uomo dai saldi principi morali che sarà nominato sceriffo proprio grazie ai sotterfugi e agli interessi del primo. Tra i due, che evidentemente incarnano visioni difficilmente conciliabili della giustizia e della morale, si alternano rivalità e coalizioni di comodo, queste ultime volte alla salvaguardia dell’insediamento dagli interessi esterni che premono sui suoi labili confini. A questi si affiancano diversi personaggi, alcuni intrisi dalla leggenda del West, come il ricco e potente cercatore d’oro George Hearst, i pistoleri Wild Bill Hickock e Calamity Jane.
Per costruire il mondo narrativo di Deadwood, Milch ha a disposizione molti riferimenti. La serie tv, piuttosto che un fedele adattamento del romanzo Deadwood. L’epopea delle colline nere di Peter Dexter, combina e traspone, all’interno delle forme della serialità, la messe di fonti storiche – come documentato dalle interviste allo showrunner e dai contenuti extra messi a disposizione nell’edizione in dvd della serie tv – con le innovazioni stilistiche che, tra gli anni Ottanta e Novanta, il cinema e la letteratura avevano implementato all’interno del genere western per demitizzarne l’immaginario e scardinarne gli stereotipi. Lo sguardo distaccato e la decostruzione ironica della storia e del mito dell’Ovest sono debitrici di Un volo di colombe, la monumentale epica scritta Larry McMurtry, mentre l’eccesso di violenza e di volgarità lessicali sono ripresi da Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1985 come il romanzo di McMurtry e fonte di ispirazione anche per Gli spietati (1992) di Clint Eastwood. Infine, Walter Hill viene scelto come regista del pilot. È attraverso gli elementi appena elencati che Deadwood può essere considerato un western «revisionista» (Rosso 2012), ovvero una serie tv capace di rileggere la conquista dell’Ovest a partire dal punto di vista delle popolazioni indigene, ma anche afroamericane e asiaticoamericane, e delle classi subalterne, tra cui prostitute, braccianti e minatori, vessate da quanti erano intenzionati ad appropriarsi dei “nuovi” territori e delle sue ricchezze.
Il recupero della storia sociale non è mai didascalico, in quanto l’obiettivo di Deadwood non è quello di ricostruire fedelmente la scia di orrori perpetratisi nel villaggio tra le nere colline e sorretta dalle mire espansioniste del Dakota e del Montana. Piuttosto, le forme fisiche e verbali con cui la crudeltà viene messa in scena sono la manifestazione più evidente della coesistenza mai pacifica tra wilderness e civilizzazione. Gli episodi di violenza che si susseguono da un episodio all’altro ribadiscono l’infondatezza della dicotomia tra stato di diritto e anarchia selvaggia. È vero piuttosto il contrario, ossia che la prima sfrutta la seconda per giustificare le sue azioni più bieche (Berrettini 2007). Deadwood sostituisce la violenza dicotomica e rigenerativa del western classico – si pensi alla forma-duello, peraltro poco presente nella serie – con la violenza che si scatena in risposta a un sistema politico ed economico di tipo predatorio. Limitiamoci ad alcune sequenze esplicative di questo meccanismo: un giocatore d’azzardo ubriaco e invidioso della leggenda che ammanta Wild Bill, lo uccide a sangue freddo (S01E4); Al Swearengen commissiona l’omicidio una bambina, figlia di pionieri e sopravvissuta a un’imboscata di finti indiani (S01E2); il proprietario del Gem Saloon non si fa scrupoli ad uccidere una prostituta pur di salvarne un’altra (S03E12); sempre Swearengen, accetta di farsi amputare di un dito da George Hears pur di placarne momentaneamente la furia conquistatrice (S03E3); la lotta all’ultimo sangue tra i luogotenenti di Swearengen e Hearst (S03E5).
Come accennato, la violenza non è solo fisica ma anche verbale. Al cowboy solitario e laconico si sostituiscono lo sproloquio e il turpiloquio di Swearengen, Trixie (Paula Malcomson), “maîtresse” del Gem alla ricerca costante dell’emancipazione, e infine di Calamity Jane (Robin Weigert). Il monologo, in cui lo slang ruvido e l’abuso di volgarità si combinano a una recitazione che richiama la prosa vittoriana, esasperandola, è un dispositivo espressivo condiviso da molti personaggi, maschili e femminili. L’aspetto parodico con cui viene richiamata la recitazione teatrale è talmente evidente che, nella terza stagione, una compagnia di teatranti alquanto attempata arriva nel villaggio. Campione del monologo è Swearengen: con grande maestria attoriale, Ian Mcshane riprende astuzie e doti oratorie di alcuni personaggi shakespeariani, in particolare Enrico di Bolingbroke e Falstaff, dal dramma in due parti Enrico IV (Ronnenberg 2018). Ad accomunare i tre personaggi ci sono potere, corruzione, abilità manipolatorie e una chiara visione politica alimentata dall’ambizione. È nella prospettiva di un’educazione ai modi della sopravvivenza politica ai confini della civiltà, ovvero in un ambiente instabile e di transizione, che Swearengen assurge al rango di figura paterna per Bullock.
In Deadwood lo spirito della frontiera, intesa da Turner come orizzonte di espansione fondato sui principi della democrazia e dell’individualismo, cede il posto a una borderland, uno spazio da preservare, attraverso la violenza, dalle minacce che premono sui suoi confini. L’insediamento, lontano dall’amministrazione federale e interno al territorio indiano, viene concepito dai suoi stessi abitanti come un’anomalia irriducibile a ciò che lo circonda. Ed è proprio per difendere i confini di questa borderland posta sulla frontiera del mondo civilizzato che la comunità si coalizza per affrontare i suoi molti avversari, dai nativi americani agli Stati Confederati, sino agli interessi economici di Hearst.
All’orizzontalità del paesaggio che attende di essere esplorato e conquistato si sostituisce lo spazio angusto e fangoso del villaggio, desideroso di essere abbandonato a se stesso. In Deadwood non ci sono eroi, né sussiste la possibilità di esercitare una giustizia retributiva. Tra le colline nere c’è una comunità che non cerca alcuna redenzione e fonda la sua unità sulla paura verso l’alterità. È forse per queste ragioni che, a distanza di venti anni, Deadwood continua a parlarci anche del nostro presente.
Riferimenti bibliografici
F. Berrettini, No Law: Deadwood and the State, in “Great Plains Quarterly”, n. 27, 2007.
J. McCabe e K. Akass, Sex, Swearing and Respectability: Courting Controversy, HBO’s Original Programming and Producing Quality TV, in Id., a cura di, Quality TV. Contemporary American, Television and Beyond, I. B. Tauris, London and New York 2007.
D. Lavery, Introduction. Deadwood, David Milch, and Television Creativity, in Id., a cura di, Reading Deadwood: A Western to Swear, I. B. Tauris, London and New York 2006.
A. Perlman, Deadwood, Generic Transformation, and Televisual History, in “Journal of Popular Film and Television”, vol. 39, n. 2, 2011.
A. Sepinwall, Telerivoluzione. Da Twin Peaks a Breaking Bad, come le serie americane hanno cambiato per sempre la tv e le forme della narrazione, Rizzoli, Milano 2014.
S. C. Ronnenberg, Deadwood and Shakespeare. The Henriad in the Old West, McFarland, Jefferson (NC) 2018.
S. Rosso, Demitizzare il western: le tre stagioni di Deadwood (2004-2006), in “Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani”, n. 3, 2012.