Il Mucchio sta attraversando il deserto per andare verso il Messico. I loro cavalli si muovono con difficoltà sulle dune. “Attenzione”, grida il più vecchio tra loro. I cavalli si spaventano e disarcionano gli uomini, che rotolano sulla sabbia, in ralenti. “Quello ci farà accoppare tutti. Sbarazziamocene subito”, urla uno dei due fratelli Gorch. “Tu non ti sbarazzi di nessuno”, risponde animatamente Pike Bishop, il loro capo. “Resteremo insieme come abbiamo sempre fatto. Quando ci si mette insieme si resta uniti e se non riesci a farlo vuol dire che sei peggio di un animale. Sei finito. Siamo finiti”. A uno a uno i membri del Mucchio risalgono sui cavalli. Mentre cerca di montare a cavallo, la staffa della sella di Pike però si rompe. Cade, e l’impatto su una vecchia ferita di proiettile lo porta a contorcersi di dolore. Alla fine, però, si riprende e si rimette in piedi, malgrado le derisioni dei fratelli Gorch. Poi si issa sulla sella e riprende a cavalcare. Mentre il suo cavallo si trascina stancamente tra le dune di sabbia del deserto, la macchina da presa stringe su di lui e indugia sulla sua schiena stanca e ingobbita.
Questa sequenza de Il mucchio selvaggio (1969) è un perfetto emblema di quella che sembra a tutti gli effetti essere la cifra principale dei western di Peckinpah, il suo essere disperatamente inattuale. Sono passati esattamente trent’anni da Ombre rosse (1939) di Ford, il momento in cui il western aveva raggiunto la sua piena maturità classica, e il genere è profondamente cambiato, così come è cambiata l’America. La trasparenza si è opacizzata, l’armonia tra l’uomo, la sua azione e l’ambiente si è spezzata, la comunità è diventata mucchio, l’eroe non si accorda più al proprio tempo ma diventa il residuo di un’altra epoca. Se il western classico è stato l’epopea di una comunità che amplia il proprio territorio per edificare una nazione, il neo-western di Peckinpah è l’agonia di una nazione, di mondo e di un genere diventato ormai anacronistico. D’altra parte, la stessa tagline del film lo diceva: «Unchanged men in a changing land. Out of step, out of place and desperately out of time».
Pike Bishop è infatti l’uomo che si rifiuta di cambiare con il cambiare dei tempi. Deke Thorton, la sua nemesi, il suo ex socio ora passato dall’altra parte, è l’uomo che invece è cambiato, l’uomo imbrigliato dal sistema, «l’uomo che aveva sacrificato la propria vitalità per poter continuare a vivere» (Weddle 2018, p. 336).
Ma out of time sono anche tutti gli altri protagonisti dei western di Peckinpah, sin da La morte cavalca a Rio Bravo (1961). Anche qui il protagonista, Yellowleg, è un uomo ferito, che porta inscritto sul proprio corpo i segni del tempo, lontano dall’infallibilità del westerner classico: la ferita alla spalla non gli consente di sparare bene e diventa la causa che lo porta ad uccidere accidentalmente un ragazzo in una sparatoria. O ancora di più nel successivo Sfida nell’Alta Sierra (1962), che stabilisce un netto ed evidente parallelismo tra la vicenda dei personaggi (cowboy senescenti che assistono all’agonia del Selvaggio West) e quella degli attori chiamati a interpetrarli, Joel McCrea e Randolph Scott, due veterani del genere la cui fortuna si era affievolita al botteghino. Il tempo è passato, le suole degli stivali si sono riempite di buchi, i vestiti dei protagonisti si sono logorati. Steve Judd (McCrea) porta tutti i segni degli effetti del tempo quando a cavallo è costretto a farsi da parte mentre un’automobile gli sfreccia di lato, oppure quando cerca di nascondere i polsini logori della camicia o la sua presbiopia; è ciò che accade anche quando McCrea tenta di nascondere la sua solitudine mentre Scott ricorda una vecchia fidanzata. O Gil Westrum (Scott), che Judd all’inizio ritrova caduto in disgrazia e al verde, senza più quei valori in cui prima credeva, mentre ora spenna dei provincialotti in un tiro a segno di una fiera producendosi in una parodia della sua vecchia identità. Ma è ancora il caso di L’ultimo buscadero (1972), storia di un vecchio campione di rodeo, Junior Bonner, che ritorna nella sua città natale, Prescott in Arizona, per scoprire che i tempi sono cambiati. Suo fratello, Curly, sta convertendo il ranch di famiglia in un parcheggio per case mobili.
Ora, in tutti questi casi che abbiamo qui richiamato ciò che sembra essere sempre in gioco è la dicotomia per eccellenza su cui si fonda il genere, quella tra wilderness e civilization. Un rapporto che nei western di Peckinpah trova espressione nell’opposizione spaziale deserto/città. Il deserto come metafora di un mondo primordiale, non ancora formato. Uno spazio liscio che resiste ad essere striato (cfr. Deleuze, Guattari 2017). Da questo punto di vista La ballata di Cable Hogue (1970) è quanto mai decisivo. Cable Hogue è un cercatore d’oro abbandonato nel deserto dell’Arizona dai suoi compagni. Dopo alcuni giorni, giunto allo stremo delle forze, si imbatte in una sorgente che scopre essere l’unica fonte d’acqua sul percorso tra due città. Rivendica per sé l’acqua e apre una stazione di sosta per le diligenze. Film su un atto di fondazione, La ballata di Cable Hogue è esattamente il tentativo di civilizzare il deserto, di rendere striato lo spazio liscio del deserto. E Cable viene ucciso proprio da un oggetto di questa civilizzazione, l’automobile, di questo nuovo tempo nel quale non si ritrova.
È vero che Cable Hogue, in partenza, si ferma nel deserto per un desiderio di vendetta, cioè, in fondo, animato da una primitiva e ferina idea di giustizia, ma a poco a poco questa tensione morale lascia il posto al calcolo economico, alla spinta verso il profitto. La sua natura di perdente risiede nel fatto di essere inconsapevole del ruolo di campione dell’accumulazione capitalistica che le circostanze – dunque la storia – gli hanno assegnato. La sua sconfitta e la sua morte si spiegano con il fatto che egli non sa adeguarsi “tecnicamente” al progresso e al mutare dei tempi: trasformarsi da venditore d’acqua in venditore di benzina (Morandini, in Bellour 2023, p. 201).
Il western di Peckinpah diventa allora il racconto di queste due opposte tensioni: di una civilizzazione che avanza e di personaggi che tentano di resistervi. Personaggi mossi da ossessioni più grandi di loro, come il maggiore Dundee con la sua caccia a Sierra Charriba, il capo Apache, in appunto Sierra Charriba (1965), una sorta di «Moby Dick a cavallo» (Weddle 2018, p. 241). In questo il suo cinema dialoga esplicitamente con la profonda tradizione letteraria americana:
I nostri figli più rappresentativi – Achab, Huck Finn, Nick Adams, Joe Christmas – sono tutti criminali, uomini ossessionati da uno qualunque di quei grandi sogni che vengono violati o sviliti, come deve sempre accadere: che si tratti di una balena bianca o di una guerra, di una burocrazia sconfortante o dei tempi che cambiano, queste anime spezzate si contorcono per lo sdegno. Conflitti simili erompono dentro ognuno di noi, ma l’intento della narrativa americana consiste nello spingerli fuori dalla porta, trasferendoli su baleniere e zattere, in borghi spagnoli e manieri gotici del sud, o nei western (Murphy 1985).
Un confronto che porta il suo cinema ad accedere alla dimensione del mito. Un mito da rifondare, certo, da ripulire sporcandolo, e popolandolo di assassini psicopatici e razzisti che diventano in fondo strumento di un discorso sulle pulsioni profonde dell’essere umano. Che sono in fondo pulsioni di morte. In questo senso, Il mucchio selvaggio rimane ancora decisivo: l’agire di Pike Bishop è spinto da un disperato desiderio di morte. Pulsioni che fanno letteralmente a brandelli il mondo, che lo riducono in pezzi. Da qui la centralità del montaggio nel suo cinema («Il mio girato è un pezzo di marmo. Comincio a scolpire la mia statua quando entro in sala montaggio», Weddle 2018, p. 231) in cui il tempo viene dilatato o ristretto, la cronologia degli eventi mischiata, l’azione rimodellata ancora e ancora, e in definitiva messa in questione. E qui sta anche la modernità della messa in scena di Peckinpah. Il massacro che chiude il film è la destrutturazione dell’azione che fa deflagrare i corpi e i raccordi appunto di montaggio, che destituisce l’azione per riconfigurarla.
Non secondario è il luogo in cui tutto questo prende forma, il Messico, uno stato di innocenza, al di là del bene e del male, il non-formato, il non civilizzato, o l’incivilizzabile: «Sam Peckinpah’s Mexico is a spiritual country similar to Ernest Hemingway’s Spain, Jack London’s Alaska, and Robert Stevenson’s South Seas. It is a place where you go “to get yourself straightened out”» (Schrader 1969, p. 19). Il Messico come luogo non solo di una lotta tra ricchi e poveri, tra spossessati e oppressori, ma soprattutto come disintegrazione di un tessuto sociale, «il luogo storico della violenza» (Volpi, in Bellour 2023, p. 67). Ed è allora questa condizione primordiale che spiega la ricorrenza dell’infanzia nei suoi film. L’infanzia come limbo tra innocenza e colpa, tra gioco e crudeltà, come luogo che si pone al di là di questi opposti. I giochi dei bambini di Peckinpah sono sempre infatti giochi di morte, pensiamo naturalmente alle formiche e allo scorpione dell’inizio de Il mucchio selvaggio o ai bambini che giocano con la forca in Pat Garrett e Billy the Kid (1973). Anche in quest’ultimo film troviamo due ex soci posti ai lati opposti della legge; la natura ambigua di quella legge, manipolata da giganteschi interessi economici che vogliono distruggere (“striare”) le praterie per accumulare soldi facili, e le tragiche conseguenze che ciò comporta per le singole vite. Perché in fondo quello che si vuole imbrigliare è la forza della vita stessa. Che è poi in definitiva la lettura che Peckinpah fa della vicenda di Billy the Kid: «Billy è un corpo che esulta e si nutre di piaceri intensi, manifestando comportamenti irregolari, sfrenati, dispendiosi, fuori della legge dettata dall’utile, estranei al diritto del più forte: il capitale» (D’Angela 2012, p. 207). Non è allora un caso che l’uccisione di Kid avvenga proprio dopo un atto sessuale, dopo cioè una piena affermazione di vita.
Dopo aver ucciso Kid, Pat si allontana a cavallo di spalle e un bambino gli lancia dei sassi mentre la voce di Bob Dylan canta: “Bounty hunters are dancing all around you/ Billy, they don’t like you to be so free”. È l’ultima immagine del suo ultimo western. È la fine della Frontiera.
Riferimenti bibliografici
T. D’Angela, Western. Una storia dell’Occidente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Orthotes, Napoli 2017.
M. Morandini, Sam Peckinpah, in R. Bellour, a cura di, Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, Cue Press, Imola 2023.
K. Murphy, Sam Peckinpah: No Bleeding Heart, in “Film Comment”, n. 2, aprile 1985.
P. Schrader, Sam Peckinpah going to Mexico, in “Cinema”, n. 3, 1969.
G. Volpi, L’ultima frontiera, in R. Bellour, a cura di, Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, cit.
D. Weddle, Se si muovono… falli secchi! Vita di Sam Peckinpah, minimum Fax, Roma 2018.