Quando serve, il western arriva sempre. Può anche indebolirsi o eclissarsi o finire sullo sfondo di altri sentimenti, ma per ragioni che risiedono anzitutto nel suo legame originario e, anzi, fondativo con la società e la cultura statunitensi, esso, più di ogni altra formula narrativa elaborata o perfezionata dal cinema (classico) – in questo caso a partire da una letteratura che era già industriale e popolare, e che già aveva stabilito un fertile commercio tra realtà e immaginazione –, rappresenta un territorio di metafore e simboli sempre attuali per interrogare un intero paese (forzando il più delle volte la questione dell’identità) ed elaborare le risposte nella forma di un racconto collettivo. Anche per questo, il western è un genere in cui il cinema (americano) si trova spesso a fare i conti con la sua stessa capacità di essere monumentale, ossia un mezzo di scambio tra memoria e futuro. Così, per fare un esempio recente, è annunciata per i prossimi giugno e agosto la distribuzione delle due parti di Horizon: An American Saga, progetto scritto e diretto da Kevin Costner (e ambientato negli Stati Uniti della Guerra Civile e della conquista del West) che fin dal titolo, e poi per dimensioni e impegno produttivo, coniuga chiaramente il western nella forma dell’evento e dell’estensione nel tempo. Come se queste misure larghe fossero, oggi più che mai, le uniche possibili.

Lungo questa storia, il ruolo di Arthur Penn è stato per metà quello di un sabotatore – l’intimismo di Furia selvaggia-Billy the Kid (The Left Handed Gun, 1958), la decostruzione di Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) –, per metà quello di un lucido interprete della forma e dell’iconografia del genere – Missouri (The Missouri Breaks, 1977) – ma, anche, della sua ideologia, da stanare quale meccanismo profondo all’interno di racconti “contemporanei” – La caccia (The Chase, 1966), Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967). In tutti i casi, come chiarisce bene, all’inizio di tutto, proprio Furia selvaggia – che arriva giusto due anni prima dell’“Eastern” scritto da Arthur Miller per Marilyn, zavorrato alla tradizione da John Houston e Clark Gable –, Penn il newyorkese (ma nato a Philadelphia, Pennsylvania, New England, l’Est dove è cominciato tutto), Penn il progressista e l’uomo di teatro (Actors Studio, Broadway e off-Broadway) nel western va subito a cercare la scrittura, il rito, la leggenda (quella che vince sulla realtà). Furia selvaggia è, dichiaratamente, «un film non sul West ma su un certo West» (Labarthe “Cahiers du Cinéma”, n. 140, 1963) – e quindi «uno dei western più eterodossi degli anni cinquanta» (Morandini 1973, p. 320) – in cui Penn, tradendo un soggetto di Gore Vidal, affronta il genere come tipologia narrativa e modalità discorsiva, mettendo in scena il meccanismo stesso della nascita del mito (di Billy e del West), il suo conflitto con la realtà e il ruolo dei mezzi di comunicazione nella sua propagazione (in particolare la paraletteratura di frontiera). Altro che leggenda, o realtà, realtà che si fa leggenda, leggenda che riordina la realtà. Penn sembra già dire – nel decennio in cui il genere si avvia a un primo declino tra ultimi fuochi di vecchio stile (il “superwestern”) e anticipazioni di rinnovamento (Johnny Guitar, Nicholas Ray, 1954) – quello che in Piccolo grande uomo, ma anche in Missouri, attraverso la gelida decostruzione del momento del duello, griderà, ossia che il mito è un’interpretazione distorta, e spesso violenta, della Storia, una costruzione ingannevole propagata dai mezzi di comunicazione (cinema compreso) in cui «le cose perdono il racconto della loro fabbricazione» (Barthes 1974, p. 222). Non solo: costretto a somigliare a sé stesso, ossia a essere la leggenda “selvaggia” (westener) e il coro di voci che si sono impadroniti della sua vita e lo hanno trasformato nel sanguinario “Kid”, Billy è la prima delle tante vittime della Storia al centro del cinema di Penn (le più tragiche, Bonnie e Clyde, le più malinconiche, i figli dei fiori di Alice’s Restaurant, 1969), uomini e donne che finiscono per vivere in una replica e in una condanna – il noir kafkiano Mickey One (1965) è un’altra fonte primaria di tutto il cinema a venire.

Il western maggiore di Penn, quello più New Hollywood e di sinistra tra i neo-western del periodo, rilancia e approfondisce entrambe le questioni (da un romanzo di Thomas Berger). Il Jack Crabb di Piccolo grande uomo è un non-eroe instabile, una figura in movimento tra i fronti opposti della Storia e la pluralità dei racconti che la tramandano, un testimone incerto destinato (a 121 anni…) a decostruire la fredda presunzione alla base di narrazioni astratte e libresche, senza cuore e sangue, amore e morte. «Ci raccontiamo un sacco di bugie sulla storia. La storia è una bugia a cui scegliamo di credere»: il lungo flash-back di Crabb comincia come una (s)confessione delle parole difficili e delle idee romanzesche di un giovane storico progressista (Little Big Horn e il generale Custer come “roba da leggende e avventura”), e si avventura a poco a poco dentro, in mezzo, addosso alla verità confusa – fisica, incarnata, sensibile – dei fatti. Ossia, là dove le differenze si assottigliano e il cinema, anziché credere ancora una volta la leggenda (o comunque preferirla), si pone (o dovrebbe porsi) come strumento per ripensare la differenza – buoni e cattivi, vinti e vincitori, civili e selvaggi. Scrive Deleuze: «Nel Piccolo grande uomo di Penn, l’eroe non cessa di essere bianco con i Bianchi, indiano con gli Indiani, attraversando in entrambi i sensi una minuscola frontiera, nel corso di azioni poco distinte. Il fatto è che l’azione non può essere mai determinata da e in una situazione preliminare; al contrario, è la situazione che scaturisce a poco a poco dall’azione» (Deleuze 2016, p. 204). Niente è mai acquisito, fine delle gesta eroiche, fine degli eroi grandiosi.

Questo percorso nella “piccola differenza” e nell’istante che stravolge tutto – ossia nel ripensamento di un genere che, dopo Penn, non sarebbe più stato lo stesso o, meglio, non avrebbe più potuto far finta di continuare a essere lo stesso – si conclude con Missouri, che mette da parte la mitologia esplorata in Furia Selvaggia e Piccolo grande uomo per raccontare di un west che è una società a tutti gli effetti, e in cui le frontiere separano uno Stato da un altro. Più che decostruire, Penn, questa volta, trascende il genere, e mira soprattutto ad esaltare (guardando al presente) le dinamiche di forza in vigore nella società americana. Così, un meccanismo chiave del genere, quello dell’inseguimento/fuga, viene dilatato e moltiplicato, facendo perdere senso e urgenza alla ricerca, e sottraendo motivazioni alla soluzione del caso. Restano un balletto violento tra due uomini – Tom Logan (Jack Nicholson), il ladro, e Robert Lee Clayton (Marlon Brando), il cacciatore di taglie – e la caccia come momento “teatrale” tutto sommato indifferente all’epilogo (sul quale, giustamente, il film taglia corto): Penn fa incontrare i due personaggi per la prima volta dopo 45 minuti dall’inizio del film, e di lì in poi svolge il racconto come una danza (spesso macabra) di avvicinamento e allontanamento, sopraffazione fisica e competizione dello sguardo. Non c’è più nulla da affermare, rivendicare, contendere; nessun valore da riconoscere, nessuna parola da divulgare.

Penn, sullo sfondo di un paese sempre più affollato di rovine reali e simboliche (il declino della sua New York l’esempio più tragico), chiude la stagione del cinema nuovo americano riaffermando un orizzonte di perdita fatale, continua e inarrestabile, identificato con chiarezza, una prima volta, in uno dei suoi film più belli, La caccia (con Brando “cacciatore per legge” in un ruolo simmetrico e opposto a quello di Clayton). Il West di Missouri non è né conquistato, né modernizzato, né rimpianto, né ricondotto nostalgicamente a un passato leggendario: è solo fallito e tradito. Non resta che andarsene – ancora più in là, ancora oltre, da qualche parte. Nel finale di Missouri, Penn lascia vivi solo Logan e la donna di cui egli è innamorato, la “moderna” Jane (un’anticipazione della Georgia del film di cinque anni dopo). Ed è a lei, non a caso, che fa dire: «Non voglio passare il resto della mia vita a vendicarmi di qualcuno».

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, “Cahiers du Cinéma”, n. 140, febbraio 1963.
M. Morandini, Arthur Penn, in R. Bellour (a cura di), Il Western,Feltrinelli, Milano 1973.

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