C’è una scena di Aprile nella quale Nanni Moretti realizza per qualche minuto la fantasia, già anticipata in Caro diario, di un «musical su un pasticcere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta», calando, di fatto, Silvio Orlando in un colorato turbinio di torte e assistenti di pasticceria. L’evocazione della scena è un prodotto imprevisto, per associazione di idee, della lettura delle prime pagine di Critica sperimentale (Carocci, 2021), a cura di Francesco de Cristofaro e Stefano Ercolino – antologia di saggi che è dedicata non a Nanni, ma a Franco Moretti e alla sua vasta e internazionalmente riconosciuta opera di teorico della letteratura, iniziata a metà degli anni settanta e oggi ancora attiva, con opere del calibro de Il romanzo di formazione (Garzanti, 1986), Opere mondo (Einaudi, 1994) e Atlante del romanzo europeo 1800-1900 (Einaudi, 1997), per citarne soltanto alcune.
Ora, l’associazione di idee non si basa di certo sul legame famigliare tra il critico e il regista secondo una “critica della critica” mossa, peraltro, su un terreno inverosimile, e cioè esclusivamente biografico, dal quale ci si vuole qui completamente astenere. Si tratta, piuttosto, di un nesso che procede tanto per somiglianza – “trotzkista” è la matrice ideologico-politica rinvenuta da Ercolino in uno dei primi testi di Moretti, Letteratura e ideologie negli anni Trenta inglesi (ed. Adriatica, 1976), mai più ripubblicato – quanto per opposizione: se, come spesso accade con i “film nei film” di Nanni Moretti, il musical sul pasticcere trotzkista configura una sorta di controcanto, leggero e sostanzialmente pacificato, alla narrazione documentaria più seria e engagée, la formazione ideologica e politica di Franco Moretti è un fuoco che cova sotto la cenere per lungo tempo, se è vero, ad esempio, che la gestazione dello Stanford Literary Lab – ossia l’approccio laboratoriale alla letteratura, nell’ambito delle nascenti Digital Humanities, adottato da Moretti durante la sua docenza a Stanford – è stato un modo per «“contrabbandare e far sopravvivere” […] Lev. Trockij e una metodologia orientata alla scienza» (Episcopo in Moretti 2021, p. 64).
Queste ultime sono parole di Giuseppe Episcopo, autore di un saggio contenuto nella prima sezione del libro, intitolata Per una storia intellettuale e che include anche i contributi dei curatori, Ercolino e De Cristofaro. A questo proposito, in un’opera che si intitola, con brillante esattezza, Critica sperimentale, il tentativo di delineare, innanzitutto, la storia intellettuale dell’autore in questione può sembrare un’operazione tutt’al più esornativa; in realtà, come si è già cercato di evidenziare anche in queste brevi note, si tratta di un momento fondamentale per comprendere meglio l’opera di un teorico della letteratura che è un «centauro […] mezzo formalista […] e mezzo sociologo» (Moretti 1994, p. 8) e per il quale «il metodo è tutto» (Moretti 1997, p. 7). Franco Moretti, dunque, è passato dalla militanza trotzkista al marxismo anti-dialettico di Galvano Della Volpe e Lucio Colletti – altro suo contributo da riscoprire, come segnala sempre Ercolino, è la traduzione dell’Intervista politico-filosofica (Laterza, 1975) tra Colletti e Perry Anderson – per poi approfondire lo studio di Hegel e del primo Lukács. Decisivo è stato, in seguito, l’incontro con la storiografia delle Annales e, soprattutto, con il metodo scientifico: l’evoluzionismo di Stephen Jay Gould, ad esempio, nonché il concetto di «speciazione allopatrica» (processo evolutivo che porta alla diversificazione delle specie, in presenza di barriere geografiche) sviluppato dal biologo Ernst Mayr, particolarmente utile per il costante processo di messa a sistema delle proprie ipotesi teorico-critiche da parte di Moretti. Se questi ultimi strumenti critici si rivelano particolarmente utili, ad esempio, nell’interpretazione della storia del romanzo europeo, per l’ambito della “letteratura mondiale” – campo di studio rifiorito, negli ultimi due decenni, anche grazie a un articolo di Moretti, Conjectures on World Literature, pubblicato sul primo numero del nuovo corso della New Left Review nel 2000 – un punto di riferimento fondamentale è stata la nozione di «sistema-mondo» coniata da Immanuel Wallerstein nel suo omonimo opus magnum nell’ambito della storiografia economica globale.
Ora, in questa traiettoria intellettuale complessa e affascinante, l’iniziale radicamento marxista, per quanto eterodosso, sembra perdersi a favore di interessi che sconfinano in ambito liberale, come la filosofia della scienza di Popper, o anche «conservatore» – la definizione è dello stesso Moretti (2021, p. 260) – come nel caso della filosofia della storia di Reinhart Koselleck. Non si tratta, tuttavia, di una contaminazione di una qualche “purezza ideologica” di fondo, ma della manifestazione di un percorso che lo stesso Moretti ha chiaramente definito con queste parole: “Sono diventato un professore, non un intellettuale” (da un’intervista del 2020, riportata qui). Con questa dichiarazione convergono e divergono molti dei contribuiti presenti nell’antologia: Episcopo ne mostra la possibile riattivazione speculare, così come fa Andrea Miconi, parlando di Moretti come un «intellettuale della sinistra radicale» (ivi, p. 102); Guido Mazzoni preferisce parlarne in termini di «saggista» (definizione, peraltro, che ben si attaglia, in chiave lukácsiana, alla produzione dell’autore); Federico Bertoni ne mette in risalto l’attività visionaria di teorico, nel parallelo naufragio (per abbondanza, spesso) della teoria, rilevandone, anche qui, il contrasto con il suo ruolo professorale.
Eppure, la formula di Moretti contiene in sé già tutte queste possibili diramazioni e le riassume; non le trascende, tuttavia, come può dimostrare il suo stile stesso di scrittura saggistica, non di rado «apodittico» (come rileva Ercolino, la matrice è da ritrovare nel marxismo anti-dialettico di Colletti) o ancora «sghembo e sineddotico», nelle parole di De Cristofaro a proposito di Opere mondo (1994), laddove la scrittura «[segue] il ritmo del pensiero» (ivi, p. 48), con pedissequa ma illuminante costanza. In altre parole, rimane sempre attivo, e lacerante, un problema fondamentale che Moretti, in questo stesso volume, descrive come lo scacco, per mancanza di un’autentica sintesi, tra l’approccio ermeneutico e l’analisi del dato quantitativo (ivi, p. 207) – questione che sempre si apre e si ri-apre nella sua storiografia europea del romanzo o nelle sue esplorazioni afferenti alle Digital Humanities.
Questo, perché l’esercizio di Moretti – come indica il titolo di quest’antologia e la sua seconda sezione (con i contributi di Guido Mazzoni, Andrea Miconi, Patricia McManus, Gisèle Sapiro, Federico Bertoni, Mads Rosendahl Thomsen, Jérôme David e dello stesso Moretti) – è quello di una critica sperimentale, dove la forma di “esperimento”, condotta in ambito laboratoriale, va di pari passo con la ricerca di innovazione e con i rischi connessi alla “sperimentazione”. A quest’ultimo proposito, il volume, pubblicato a quasi cinquant’anni dagli esordi critici di Moretti, evita certamente il rischio di presentarsi come un Festschrift esclusivamente celebrativo e raccoglie, in modo dialettico, molte critiche avanzate, nel tempo, alle posizioni di Moretti, aggiungendo anche molti nuovi spunti per feconde divergenze.
A contraltare di questo affilatissimo esercizio di onestà intellettuale, che va riconosciuto integralmente a tutti gli autori del volume (Moretti, ancora una volta, compreso), si potrebbero facilmente ergere le (poche) critiche assenti, mai approfondite né menzionate. Può forse valere, per tutte, quella di Gayatri Chakravorty Spivak, che, in Morte di una disciplina (2003), critica il modello del distant reading (“lettura a distanza”, modello costituito da vari approcci, tanto ermeneutici quanto computazionali, spesso contrapposto alla lettura critica, preferibilmente in lingua originale, dei singoli testi letterari, o close reading) avanzato dal Moretti più “quantitativo”, nonché la prospettiva di Moretti sulla “letteratura mondiale”, perché spesso compatibile con quella Repubblica mondiale delle lettere (1999) delineata da Pascale Casanova e tacciata spesso, in ambito postcoloniale, di eurocentrismo.
In effetti, molti degli autori presenti nel volume sono più o meno concordi nell’evitare il dialogo, o anche lo scontro, con le posizioni avanzate nel tempo dai Cultural o Postcolonial Studies, riconoscendovi (non senza legittime ragioni, peraltro) un’asfittica matrice post-strutturalista dalla quale Moretti, dopo aver vissuto – sono di nuovo parole sue – l’«interminabile inverno decostruzionista» (ivi, p. 259) dell’accademia statunitense, si è sempre tenuto alla larga. Questo non è certo un difetto da imputare agli autori del volume che si impegnano, in modo più propositivo, a verificare la fecondità delle ipotesi critiche di Moretti “sul romanzo” (titolo della terza sezione, cui danno vita i contributi di Francesco Fiorentino, Françoise Lavocat, Enrica Villari e Moretti), in relazione a una possibile apertura futura dei lavori dell’autore dal romanzo alla tragedia.
Ciò che importa, in fondo, è che il laboratorio aperto da Franco Moretti sia ancora aperto a nuove suggestioni e a visionari sviluppi. Come ricorda Guido Mazzoni a proposito della comparatistica letteraria – parafrasando l’apodittica, ma ancora valida, conclusione di Moretti sulla “letteratura mondiale” (un terreno critico che è sovrapponibile, almeno parzialmente, al precedente) – questa «è ancora un progetto più che una disciplina» (ivi, p. 93). Il punto di equilibrio tra ermeneutica e analisi quantitativa, ad esempio, dev’essere ancora trovato, ponendosi ancora come una questione di fondamentale importanza nelle Digital Humanities. Del resto, come ricorda Bertoni, ancora in Distant Reading (2013), Moretti ricorre alla metafora delle maree, ripresa da Apologia della storia di Ernst Bloch, per affermare: «Preferisco studiare le maree e la luna indipendentemente l’una dall’altra. Che poi si arrivi o meno a una sintesi, è ancora da vedere» (Moretti 2013, p. 138).
In questa assenza di sintesi, come scrive ancora Moretti in Un paese lontano. Cinque lezioni sulla cultura americana (2019), il conflitto si configura come il «meccanismo di fondo della storia letteraria». Si ritorna, così, alla formazione militante del critico, con il trotzkismo variamente “contrabbandato” e in seguito affiancato da un più evidente radicamento nell’opera di Lukács, a quel «capolavoro inutile» (Moretti 2021, p. 253) che è la Teoria del romanzo (1914-1916). Moretti ne accoglie certamente l’impronta per la sua scrittura saggistica; ancora di più, però, cerca di trasportare la «dissonanza metafisica della vita» che «[la forma interna del romanzo] assume e rappresenta», per Lukács, nel proprio esercizio teorico (ivi, p. 256).
Il conflitto si apre così a una dimensione di incertezza, dovuta alla cogenza, a tratti tragica, delle condizioni materiali: come ricorda Enrica Villari, mettendo a confronto le posizioni di Moretti e di Fredric Jameson a proposito del romanzo di George Eliot Middlemarch (1871), Jonathan Arac ha colto, in un saggio del 2016, con esattezza il gradiente di questa contrapposizione tra i due critici con una formula assai convincente: «Jameson scrive come se una qualche rivoluzione fosse stata vinta, Moretti come se fosse stata persa» (ivi, p. 249). Così, in Franco Moretti, manca forse la leggerezza, la giocosità, e d’altro canto il sentimentalismo e, in fin dei conti, la pacificazione consolatoria del “musical sul pasticcere trotzkista” dei film di Nanni; tuttavia, grazie alla critica sperimentale da lui inaugurata, c’è ancora molto lavoro da fare.
Riferimenti bibliografici
J. Arac, Why Should Marxist Critics Fight over George Eliot?”, Modern Language Quarterly, 77.4, dicembre 2016.
F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994.
Id., Distant Reading, Verso, Londra/New York 2013.
G.C. Spivak, Morte di una disciplina, Meltemi, Roma 2003.
Francesco de Cristofaro e Stefano Ercolino, a cura di, Critica sperimentale. Franco Moretti e la letteratura, Carocci, Roma 2021.