Non so se si usi ancora, però una formula analoga non può non esistere. Quando da bambini ci si azzuffava, per i serissimi motivi per cui i bambini passano alle mani, e quando era chiaro che non ci sarebbe stato un chiaro vincitore, allora qualcuno, non necessariamente il soccombente, lanciava la formula che interrompeva la zuffa: “Facciamo pace”. E la pace, più o meno duratura, quasi sempre arrivava. La formula aveva il vantaggio di azzerare la situazione, quindi chi stava per avere la peggio se la cavava in modo onorevole, ma anche chi stava per avere la meglio poteva dire e dirsi che aveva smesso per non infierire. Così nessuno vinceva in modo plateale, e nessuno perdeva del tutto. Chi fiero chi un po’ acciaccato, tutti ci guadagnavano. La “guerra” era finita.
All’inizio dell’epidemia è stata dichiarata una guerra contro il virus, il malefico SARS-CoV-2. Come ricordiamo tutti per settimane e mesi (sebbene con meno enfasi dura tuttora) abbiamo sentito parlare di “prima linea”, di “eroi”, di “fronte”, di “sacrifici”, di “retrovie” (fra l’altro, è curioso che nel nostro immaginario la guerra sia sempre quella lontanissima del ’15-’18, una guerra così lontana dai conflitti moderni, combattuti con i droni e l’intelligenza artificiale). Siamo in guerra con la COVID-19. È già stato notato come questa analogia forse non fosse la migliore (si veda il blog di Guido Dotti), tuttavia alla fine è quella che abbiamo sentito ripetere con più insistenza. D’altronde che cos’erano le conferenze stampa della protezione civile delle 18.00 se non bollettini di guerra, con il conteggio delle perdite e il racconto delle battaglie? Comunque, siamo stati e siamo in guerra.
Arriva il momento di chiedersi, però, come, quando e se finisce una guerra. Vediamo intanto cos’è una guerra: «Un atto di forza che ha per scopo costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà in modo da rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza» (Clausewitz 1970, p. 19). Teniamo conto che l’avversario, in questo caso, è un virus. Se applichiamo questa celebre definizione anche a “lui” — una mossa obbligata dal momento che abbiamo detto che fra di noi c’è una guerra — allora dobbiamo ammettere che anche il SARS-CoV-2 “vuole” fare a noi la stessa cosa che noi vorremmo fargli, cioè “rendere impossibile ogni ulteriore resistenza”.
E già questo non è vero, perché il virus non vuole ucciderci: questo infatti come sappiamo porterebbe anche alla sua scomparsa. Il virus, ormai l’abbiamo imparato, prende a prestito la nostra capacità di vivere per riprodursi. Quindi il virus ci vuole vivi, perché in questo modo soltanto potrà garantirsi la sopravvivenza. Certo, è un virus ancora molto “giovane”, che sta imparando per prove ed errori (e che errori) ad adattarsi a noi, ma ha bisogno di noi.
“Quante storie”, qualcuno dirà, “poche chiacchiere, sterminiamo questo virus e facciamola finita”. Appunto. Quando finisce una guerra? Seguiamo ancora von Clausewitz: «Quando la forza militare del nemico sia ridotta in tali condizioni che non possa più continuare la lotta», cioè fino a «quando la volontà del nemico non sia domata» (pp. 42-3). Rimane un ultimo punto: siamo arrivati a questo punto? Sembrerebbe di no, e non perché non abbiamo combattuto la guerra con sufficiente energia, ma perché abbiamo capito che questo virus non se ne vuole andare (in realtà non può).
In effetti, quanti sono i contagiati? Quelli che hanno sviluppato gli anticorpi? Quanti sono i morti reali? Da quanto tempo gira il virus? Davvero un giorno sparirà? A nessuna di queste domande si può rispondere in un modo attendibile. Il virus c’è. Il punto è questo. Forse è tempo di smettere di fare la guerra. È terribile dirlo, perché subito pensiamo alla sconfitta e alla rassegnazione, alla passività e all’inerzia, al “disfattismo”, si sarebbe detto una volta. Niente di tutto questo, nessuno vuole morire. Però vogliamo anche tornare a vivere. Se non è possibile vincere, forse è il caso di dircelo, “facciamo pace”.
Riferimenti bibliografici
K. von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori 1970.