Da sempre presente nell’alveo della tradizione marxista – forse ancor più che in quella ecologista tout court – il cosiddetto “eco-socialismo” ha trovato nuovo vigore negli ultimi anni grazie a figure anche molto diverse tra loro, talvolta più orientate verso l’approfondimento accademico, come ad esempio Jason W. Moore, talvolta più inclini a un approccio, se non divulgativo, sicuramente meno imbrigliato nei confini delle singole discipline, come Andreas Malm. Mentre l’opera di Jason W. Moore è già stata oggetto di alcune traduzioni in lingua italiana, per i tipi di Ombre Corte, gli echi dell’opera di Andreas Malm sono ancora più recenti, e riguardano opere come Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming (Verso, 2016; Deutscher Memorial Prize) nonché il più recente ed esplosivo – nomen omen – How to Blow Up a Pipeline (Verso, 2020). Ponte alle Grazie ha recentemente dato inizio alla traduzione italiana dell’opera di Andreas Malm, a partire dalla sua pubblicazione più recente, Clima corona capitalismo, agevolmente tradotta da Vincenzo Ostuni.
Si tratta di un libro scritto in lockdown, tra marzo e aprile 2020, ma che non ha di certo le caratteristiche di quegli instant book pandemici che hanno affollato le librerie negli ultimi mesi: se, da un lato, il libro beneficia di un’agile e spesso gustosa scrittura pamphlétaire, esso propone il frutto di una riflessione sedimentata negli ultimi anni, dai tratti talvolta, sorprendentemente, anacronistici, e nell’accezione positiva del termine. Tuttavia, per arrivare all’anacronismo principale, enucleato nella terza e conclusiva parte del libro, occorre attraversare, prima di tutto, le altre due sezioni. Il primo capitolo, “Corona e clima”, presenta un avvincente confronto tra la catastrofe pandemica e la catastrofe climatica, nei termini, soprattutto, delle strategie politiche adottate nei confronti di due fenomeni che – pur nel loro soffocante intreccio, evidenziato, in primo luogo, dal legame tra deforestazione, zoonosi e spillover – sono stati trattati in modo chiaramente diverso. In questo senso, uno dei cavalli di battaglia di Malm risiede nell’interrogativo qui rapidamente parafrasato: perché il contrasto alla diffusione del Covid-19 ha portato a un dispiegamento di forze immediato, a tratti inaudito, e comunque generalmente ben accetto da parte dei governi e delle popolazioni, che il contrasto al riscaldamento globale – responsabile, e da molto tempo, di almeno 150.000 morti l’anno, secondo le stime dell’OMS – non ha mai nemmeno lontanamente immaginato di poter includere?.
Per quanto azzeccata, la formulazione di questo interrogativo risente, con ogni probabilità, del periodo e del luogo nel quale è stata elaborata – agli albori del lockdown, nella primavera del 2020, a Neukölln, Berlino, dove e quando si poteva ragionevolmente parlare di un’accettazione perlopiù generalizzata delle misure adottate (escludendo, dunque, la nota “querelle agambeniana” ingenerata alle nostre latitudini) – ed è oggi possibile, a fronte del susseguirsi di restrizioni sempre meno comprensibili e meno comprese, registrarne la scarsa fungibilità di fondo, in termini di creazione di consenso. L’interrogativo ha comunque il merito di spostare la questione ecologica da un piano prevalentemente etico-comportamentale – dove la creazione di consenso si riproduce forse in modo più chiaro e netto, ma porta anche, parallelamente, a un nuovo feticismo della merce, dall’impatto economico e politico via via più ridotto (si pensi, ad esempio, come l’imperativo del plastic free si sia ridotto, per quanto con effetti benefici, e anche autolegittimato grazie alla sostituzione delle bottigliette di plastica con una borraccia riutilizzabile) – a uno più squisitamente politico.
Ciò si rende progressivamente più evidente nella seconda parte del libro, “Emergenza cronica”: con l’ausilio della biologia marxista e dell’epidemiologia critica – Malm si rifà con una certa frequenza alla produzione scientifica di Rob Wallace, intervistato già l’anno scorso da Giuditta Pellegrini per “Il manifesto” – Malm giunge a identificare nel capitale stesso un «meta-virus» e un «patrono dei parassiti», ossia una forza parassitaria che, per potersi replicare, si attacca alla natura, svuotandola dall’interno. Avvalendosi del modello, per la verità piuttosto semplificato, di produzione del rischio originariamente elaborato dagli autori di At Risk: Natural Hazards, People’s Vulnerbaility and Disasters (2004), Malm dimostra come i fattori sociali siano egualmente, se non anche più determinanti, dei fattori naturali nella produzione del rischio pandemico. È un «modello dialettico», come anche Malm sottolinea più volte, sul quale è, in linea teorica, ancora possibile intervenire, ma come? Anzi, per usare il famoso motto leniniano: «Che fare?».
Nella terza parte del volume, intitolata “Comunismo di guerra”, Malm risponde utilizzando, appunto, quella che è stata la stessa risposta di Lenin, in un periodo specifico, perlomeno, della sua traiettoria politica. Il ricorso al raffronto con il comunismo di guerra (1918-1921) può forse apparire, a una prima lettura, più come intervento provocatorio, o come segno di uno sforzo maieutico, che non come un programma politico coerente in quanto tale, ma è, a tutti gli effetti, il tratto di anacronismo più evidente nel posizionamento di Malm e quello che può coordinare e ri-articolare in modo più compiuto le riflessioni appena accennate. Il raffronto, infatti, si traduce in alcuni principi politico-economici di base: su tutti, la nazionalizzazione e la riconversione di quei settori dell’economia che contribuiscono al movimento di accelerazione delle catastrofi, ossia di quelle che si basano sullo sfruttamento del «capitale fossile» (un appunto, en passant: la riconversione, secondo Malm, dovrebbe passare attraverso l’incentivo economico di alcune start-up già esistenti e dedicate alla «cattura della CO2», secondo una logica, quindi, che resta più capitalistica che non anti-capitalistica).
Il grado di coercizione implicato da un tale progetto non sembra costituire un problema, per Malm – non è stato un problema, in effetti, se si pensa alle restrizioni attive ormai da un anno contro la diffusione del Covid-19 (osservazione che, come anche in Malm, non vuole affatto invocare fantomatiche “dittature sanitarie”) – ed è anzi un modo per rendere più acuminata la critica nei confronti degli altri modelli politici adottabili in chiave ecologica, modelli che per Malm si possono provvisoriamente etichettare come «socialdemocrazia» e «anarchismo». Né l’uno né l’altro approccio possono vantare la stessa forza d’urto sistemica che potrebbe vantare il “comunismo di guerra”: se le debolezze della socialdemocrazia riformista nel contrasto alla cronicità dell’emergenza ecologica sono facilmente intuibili, pare opportuno sottolineare come Malm ricomprenda nella critica dell’“anarchismo” – termine porte-manteau, nella pubblicistica internazionale, soprattutto anglofona – anche quelle posizioni autonomiste alle quali, come ha convincentemente sostenuto Davide Gallo Lassere, il suo pensiero, in altre circostanze, poteva essere utilmente accostato.
Vi è, anzi, tutta una serie di saggi nei quali Malm manifesta la propria prossimità alla costellazione post-operaista, come ad esempio in un articolo del 2018, nel quale il boom delle emissioni di CO2 è analizzato in vista della crisi della governance della forza lavoro degli anni Sessanta e Settanta, postulando l’autonomia della natura – sulla scia di Alf Hornborg, Malm afferma, in modo molto convincente, che «le società umane hanno trasformato i cicli planetari del carbonio, ma non gli atomi di carbonio» – insieme all’autonomia del lavoro. In Clima corona capitalismo, tuttavia, Malm non utilizza «Lenin come metodo» – secondo la definizione, anche in questo caso puntuale, usata da Gallo Lassere nel ripensare all’uso di Lenin nell’opera di Mario Tronti e poi di Toni Negri – ma non ricorre nemmeno all’ortodossia del leninismo. Infatti, come ha rilevato anche Cihan Tugal, nella riflessione di Malm sembra essere assente tanto la fase precedente al comunismo di guerra, con la Rivoluzione di Ottobre, quanto la fase successiva, ovvero la NEP; più ancora, l’evocazione del comunismo di guerra non sembra fare alcun riferimento al ruolo che ha, nel leninismo, il soggetto rivoluzionario, manifestando così un’assenza che, se coniugata all’apparente scarsa attenzione verso la creazione di consenso che serpeggiava nella prima fase, potrebbe dare l’impressione di un posizionamento velleitario, nostalgico, o tutt’al più esclusivamente provocatorio, perché mancante, a tutta prima, di appigli concreti.
È lo stesso Malm, tuttavia, ad anticipare alcune provvisorie risposte a questa possibile obiezione, ad esempio quando scrive: «D’altro canto, è prevedibile che l’emergenza cronica porti un’accentuata volatilità politica. Per citare György Lukács, “quanto più profonda è la crisi, quanti più strati della società coinvolge, tanto più vari sono i movimenti elementari che vi si incrociano, tanto più intricati e mutevoli divengono i rapporti di forze”» (Lukács 1970, p. 170). In questo passaggio, Malm cita Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero (Einaudi 1970), il saggio che Lukács dedica a Lenin poco dopo la morte di quest’ultimo, nel 1924 (dispiegando ancora una volta, e qui in modo forse decisivo, le potenzialità dell’anacronismo). Lukács scrive che il ruolo del partito non è dirimente – «anche il più grande e il migliore partito del mondo non può “fare” da sé alcuna rivoluzione» – perché il partito non può sempre anticipare le circostanze storiche con precisione; di conseguenza, quando «il carattere fondamentale del periodo è rivoluzionario, una situazione acutamente rivoluzionaria può presentarsi in ogni momento».
Come hanno puntualizzato Francesco Raparelli e Marina Montanelli,
[i]l riferimento costante di queste pagine [di Lukács] è L’estremismo malattia infantile del comunismo, le tante indicazioni che sul concetto di rivoluzione (e di partito) Lenin in quel pamphlet ci offre. E ce ne è una che più di altre colpisce, Lukács allora quanto noi tutti oggi. Si chiede Lenin: quando una rivoluzione può vincere? «Soltanto quando gli “strati inferiori” non vogliono più il passato e gli “strati superiori” non possono fare come per il passato». Ci vuole un trauma, una crisi trasversale, del basso come dell’alto. Una frattura che sia in grado, per un verso, di spostare il desiderio proletario, di esibire la violenza dello sfruttamento, di renderla insopportabile; per l’altro, di far vacillare e scomporre l’omogeneità del comando capitalistico. Nella faglia, l’azione di partito: pragmatica, mai ideologica, di certo non utopica. L’azione capace di cogliere le potenzialità di una piccola breccia, di una deviazione imprevista.
In altre parole, anche prescindendo dalla forma-partito, l’organizzazione politica deve esserci sempre, ma allo scopo, innanzitutto, di agire in modo pragmatico all’interno della faglia aperta da una crisi, o anche da un trauma sociale di diverso tipo (come quello che, in effetti, può essere oggi rappresentato dalla circostanza pandemica, con la sua immediata riconfigurazione degli assetti capitalisti e la conseguente accelerazione delle diseguaglianze sociali).
Alla luce di queste considerazioni, non sembra esserci alcuna “malattia infantile” nel “comunismo” di Malm: la disamina della tradizione politica nella quale si vuole inserire il libro è molto più sofisticata. È altrettanto vero che il suo saggio non è esente dalla possibilità di aporie, come si è cercato anche qui di annotare, prestandosi ad essere letto in molteplici direzioni, anche molto diverse tra loro. Ciò si rende evidente con la citazione che Malm inserisce subito dopo quella di Lukács, ricorrendo a Daniel Bensaïd: il filosofo francese ha infatti affermato che lo slogan che «riassume la politica di Lenin [è]: “Siate pronti!. Tenetevi pronti all’inverosimile, all’inatteso, a quello che succederà”» (Bensaïd 2012, pp. 444-445). Come chiosa Malm, ricorrendo ancora una volta, in modo molto sagace, a L’estremismo malattia infantile del comunismo di Lenin: «Questo significa anche, nelle parole di Lenin, esser pronti a “metterci ‘al lavoro’ […] in tutti i campi, di qualsiasi genere, anche nei più vecchi e apparentemente infecondi, perché altrimenti non saremo all’altezza del compito”. Se la questione è impellente, bisogna usare il materiale a disposizione» (Malm 2021, p. 171).
Se non alla rivoluzione e al comunismo di guerra, Malm ci invita, insieme a Lenin e a Bensaïd, ad “essere pronti” e a “usare il materiale a disposizione”: contrariamente all’ecologismo più evangelico, “sappiamo il giorno e l’ora”, e non dobbiamo, dunque, essere pronti a cambiare la nostra vita in vista del regno dei cieli, ossia in senso esclusivamente etico e auto-legittimamente, bensì a cercare la via del cambio sistemico. Altrimenti, si perderà quella guerra – cui fa riferimento, di fatto, anche il “comunismo di guerra” – che non è soltanto la “guerra al virus” (in merito alla quale la diffusione di metafore belliche ha avuto, com’è noto, effetti anestetizzanti e depoliticizzanti), ma il conflitto di ordine più grande che riguarda il cambiamento climatico e, insieme ad esso, la lotta di classe.
Riferimenti bibliografici
D. Bensaïd, Una lenta impazienza, Alegre, Roma 2012.
D. Gallo Lassere, Benvenuti nel passato. Autonomia della natura, combustibili fossili e Capitalocene, in “Le parole e le cose”, 15 gennaio 2021.
G. Lukács, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970.
B. Wisner, At Risk: Natural Hazards, People’s Vulnerbaility and Disasters, Routledge, New York 2004.
Andreas Malm, Clima corona capitalismo. Perché le tre cose vanno insieme e che cosa dobbiamo fare per uscirne, Ponte alle Grazie, Milano 2021.