Sin dai primi giorni del confinamento obbligato si è parlato molto di un libro, Viaggio intorno alla mia camera, scritto nel 1794 da Xavier de Maistre, scrittore schivo e riservato, fratello del più famoso e celebrato Joseph de Maistre. Il libro è il risultato di 42 giorni di isolamento a cui l’allora giovane ufficiale era stato condannato per la sua partecipazione ad un duello. Costretto all’isolamento, de Maistre scrive allora un testo in cui quello spazio ristretto diventa il suo mondo, popolato di personaggi immaginari, di storie, di riflessioni. Difficile non riconoscere in queste pagine una sorta di racconto di un’esperienza comune, che attraversa le esistenze di molti di noi.
Non è certamente un caso che quel libro sia tornato all’onore delle cronache in questi giorni. Come molto spesso accade, laddove le parole per descrivere un’esperienza non si trovano, il ricorso al passato permette di rileggere, rintracciare, risignificare persino parole scritte per altre occasioni, che diventano improvvisamente attuali, si arricchiscono dei nostri sguardi presenti.
Quello di de Maistre non è l’unico libro che è ritornato in auge; la lista è lunga. C’è però un testo di cui si è parlato meno, e che non per questo è da considerare poco importante, anzi. Nel 1974, Georges Perec, scrittore geniale e fuori dai canoni dà alle stampe un libro particolare, scritto su suggerimento dell’amico Paul Virilio. Il libro si intitola Specie di spazi e vuole essere, nelle dichiarazioni dell’autore, un “bestiario di spazi”, un po’ come il suo romanzo d’esordio, Cose, era stato un bestiario di oggetti. Perec, da sempre ossessionato dalle classificazioni, dagli elenchi di tutti i tipi, costruisce anche qui una sorta di mappatura degli spazi che lo circondano, a partire dal foglio bianco davanti al quale si trova, fino a accogliere con la mente l’universo intero. Specie di spazi è un’opera particolare, difficilmente classificabile, in cui convivono il saggio lirico, il gusto del racconto, il memoir. Le descrizioni si alternano alle riflessioni, la classificazione all’esplorazione di sé.
Nelle prime pagine del libro lo scrittore francese afferma qualcosa che irrimediabilmente colpisce se proiettato nel presente, nei pensieri di questi giorni: «Pochi sono gli avvenimenti che non lasciano almeno una traccia scritta. Quasi tutto, una volta o l’altra, passa per un foglio di carta, una pagina di taccuino, un foglietto d’agenda o un qualunque altro supporto di fortuna». Lasciare traccia, dare una forma, in questo caso scritta, ad eventi, avvenimenti che in un modo o nell’altro, cambiano la nostra vita, sia pure impercettibilmente.
Ma se questo è comprensibile e si realizza sotto gli occhi di tutti – basta pensare alla enorme quantità di riflessioni, commenti, interpretazioni che ogni giorno i giornali e la rete ci offrono – diverso è il discorso se pensiamo a quali immagini costituiscono (e costituiranno) la traccia di una contemporaneità che rende difficile filmare così come si faceva fino a pochi mesi fa. Certo, siamo inondati da immagini, da tutte le fonti; immagini mediatiche che provano a dare corpo ad una realtà esterna che ci è interdetta. Ma sono immagini che vengono fagocitate dal sistema dei media, oppure immerse in un flusso apparentemente senza fine. Diverso è il discorso se parliamo di cinema: quali immagini sono ora possibili, quali forme e narrazioni possono nascere in un momento dove tutto sembra bloccato, in cui le produzioni cinematografiche sono in stand-by, la distribuzione impossibile, e dove soprattutto sorge urgente la domanda su cosa filmare, e come?
Il cinema non è nuovo a questa possibilità: nel corso della sua storia la pratica di filmare il proprio isolamento per le più svariate ragioni è stata spesso affrontata da registi anche molto diversi tra loro; l’idea di fare del proprio appartamento, della propria camera il punto di partenza per una riflessione sul mondo, su se stessi e sulle immagini è già apparsa nella storia della settima arte – basti pensare a film come Arirang (2011) di Kim ki-duk, a This is not a Film (2011) di Jafar Panahi, o ancora ai film radicali di David Perlov (Yoman – Diary, 1973-1983) o di Chantal Akerman (Je Tu Il Elle, 1974), autrice tra le più estreme di un cinema del confinamento. Ognuno di questi film diventa ora, alla luce dell’evento della pandemia, contemporaneo in un senso nuovo, perché lo sguardo che posiamo su di essi li investe di un nuovo significato. L’elenco potrebbe naturalmente continuare, ma ciò che rimane aperta è la questione sulle nuove immagini, sulle domande che abbiamo posto sopra (cosa filmare ora? E come?).
Quali immagini sono possibili e necessarie? Quali immagini possono diventare non solo traccia ma anche sguardo sulla trasformazione in atto, all’esterno e all’interno delle nostre coscienze? Ancora domande pressanti, a partire dalle quali innescare una riflessione, che non può non partire da alcuni segni che lentamente stanno emergendo da una situazione magmatica e in costante trasformazione.
Diversi registi, da varie parti del mondo stanno cercando di trovare una risposta, di tornare a progettare un cinema che si ponga come uno sguardo sulla contemporaneità: Pietro Marcello, Lech Kowalski, Alba Rohrwacher, per fare alcuni nomi stanno sviluppando i loro progetti, cercando le modalità con cui filmare il mondo esterno; Gabriele Salvatores, o documentaristi come Pablo Benedetti e Federico Micali hanno lanciato appelli a chiunque per inviare video che raccontino la loro esperienza del confinamento. Tale archivio di immagini diventerà allora il materiale su cui il montaggio opererà per costruire nuovi percorsi collettivi, nuovi sguardi che elaborano le molteplici, parziali esperienze. Al tempo stesso, però, la necessità di filmare i luoghi, le piazze, le strade è altrettanto importante. La dialettica sembra allora essere tra lo sguardo interno che racconta, spesso in prima persona, l’esperienza di un mondo ridotto alle pareti di casa; e lo sguardo esterno che cerca spazi, crepe, anfratti proiettati al di fuori, per costruire immagini diverse.
È all’interno di questa dialettica tra interno ed esterno che i primi segni sembrano muoversi. Una delle operazioni più interessanti in questo senso è allora quella promossa dal Thessaloniki International Film Festival, il festival greco di cinema più importante del Paese (la cui edizione dedicata al documentario sarà completamente on line, dal 19 al 28 maggio 2020). La direzione del festival ha chiesto a registi di varie nazionalità di realizzare ciascuno un breve cortometraggio che racconti l’esperienza della vita quotidiana ai tempi del Coronavirus, che crei uno sguardo a partire dal proprio sentire. Il progetto si chiama Species of Spaces, come il titolo dell’opera di Perec, da cui riprende non solo l’idea del racconto dei propri spazi, ma anche la forma ibrida, la capacità cioè di muoversi tra pura osservazione e invenzione visionaria. Il progetto del festival di Salonicco ha dunque come fondamento il movimento stesso del percorso di Perec: dall’osservazione minuziosa e rigorosa di ciò che costituisce il nostro mondo (la casa), all’immaginazione di un universo sempre più esteso, irraggiungibile con lo sguardo, ma non con la creatività.
Molti dei registi hanno accettato la sfida e filmato con quello che avevano a disposizione: il risultato sono due brevi film (uno composto da lavori di registi greci e uno che raccoglie i corti realizzati da registi internazionali). Scorrendo queste immagini ritroviamo allora quella ricerca delle tracce necessarie che anima il testo di Perec; tracce che non possono essere solo legate all’immediatezza, al puro e semplice racconto dell’isolamento, ma che diventano il punto di partenza per affrontare quella tensione dialettica tra interno ed esterno che sta trasformando la nostra percezione del mondo e del nostro rapporto con esso.
Il regista turco Tarik Aktas – il cui film Dead Horse Nebula (2018), premiato a Locarno ha proiettato l’autore nel panorama internazionale – in Figging the Tree filma il suo giardino insieme a suo figlio, in una sorta di piccolo viaggio di esplorazione, alla ricerca di piante, di alberi, di racconti legati ad un mondo che ora può essere osservato con uno sguardo nuovo. Alla fine del corto i due sono in casa e Aktas proietta su una parete le immagini di un panorama di montagna. Il bambino si avvicina alla parete e le immagini ora sono proiettate anche sulla sua schiena. Il piccolo allunga una mano, cercando di toccare quelle montagne, quella vegetazione rigogliosa; ne segue il profilo con il dito, in silenzio. Il conflitto tra il piccolo mondo del giardino e il mondo esterno proiettato sulla parete esplode in questo rapido confronto, in cui è l’immagine cinematografica a ricordarci un mondo non perduto, certo, ma che ora dobbiamo vedere con altri occhi e pensare con altre categorie.
John Carroll Lynch, attore caratterista tra i più dotati del cinema americano, ma anche regista indipendente e autore del sorprendente Lucky (2017), ultima apparizione come attore protagonista di Harry Dean Stanton, realizza un corto dal titolo Be Absolute for Death: il regista filma i suoi gesti quotidiani nella sua casa in campagna. Gesti vuoti o automatici, che semplicemente riempiono il tempo: camminare, lavare la casa, guardare fuori dalla finestra. Ma Lynch (nessuna parentela con il più celebre David, che comunque appare come attore in Lucky) non mostra solo gesti, perché il suo personaggio parla, pronuncia un discorso che è in realtà un monologo, scritto quattro secoli fa da William Shakespeare, appunto Sii in assoluto per la morte, presente in Misura per misura. Parole che parlano della fragilità della vita, della vana ossessione per conservarla a tutti i costi, della necessità di pensarne la delicatezza come uno spirito lieve. Ancora una volta l’immagine è allora contemporanea quando ripensa il passato con gli occhi del presente, quando ne scopre l’intima vicinanza.
Scorrono altre immagini, altri sguardi. Il cinema che passa attraverso gli schermi, a volte fantasma, immagine spettrale, a volte illuminazione improvvisa, come l’apparizione di Jeanne Moreau che grida la sua disperazione ne La notte di Antonioni, immagini che chiudono il corto folle e disperato di Denis Côté, in cui il montaggio di spazi vuoti, delle strade deserte filmate dal proprio appartamento confluiscono in uno schermo dove solo il cinema del passato parla, si anima di corpi (come anche di violenza). La casa, in molti dei cortometraggi, diventa uno spazio unheimlich, uno spazio di fantasmi o il luogo dell’eterna ripetizione dei gesti quotidiani: simbolo non della sicurezza, ma della chiusura dello sguardo, che ha bisogno allora di un nuovo percorso (come nei folgoranti lavori di Radu Jade, uno degli sguardi più lucidi del nuovo cinema rumeno e di Mateo Bendeski, nome di punta del nuovo cinema argentino).
Chiude il percorso di Species of Spaces Jia Zhang-ke che, in The Visit, si proietta in un mondo esterno, quel mondo in cui i concetti e le pratiche di vita sono tutte da sperimentare (che ne è della vicinanza dei corpi, del contatto fisico, dell’apertura all’altro che ogni incontro presuppone?). Nel corto, un uomo (un collaboratore? Il produttore?) fa visita ad un regista, per una riunione di lavoro. Un gesto apparentemente normale che qui diventa, in un bianco e nero raggelante, qualcosa di inquietante. Ogni gesto è sottoposto a controllo, dalla temperatura corporea misurata all’ingresso al gesto di disinfettarsi le mani con l’alcool in gel, dalla distanza di sicurezza tra i corpi alle mascherine costantemente indossate dai personaggi. Ed ecco che, nel finale del film, l’uomo e il regista sono seduti in una sala di proiezione, guardando delle riprese. I due si tolgono a turno le mascherine per sorseggiare un caffè (riconosciamo allora lo stesso Jia Zhang-ke nel personaggio del regista). La ripresa è frontale e solo alla fine scopriamo che le immagini che vedono scorrere sono quelle di una folla accalcata, che si muove all’unisono, il pubblico (forse) di un concerto che balla e canta. Il regista cinese mostra dunque un mondo reale come se fosse un mondo proiettato in un futuro distopico, in una sorta di remake delle atmosfere di Alphaville di Godard, in un’immagine finale che si pone, ora come ora, come l’immagine di un sogno.
Ecco allora una prima ipotesi, una prima risposta alle tante domande disseminate in questo testo: al di là delle difficoltà concrete, di produzione e di diffusione delle immagini, lo sguardo cinematografico va oltre (deve farlo), la pura testimonianza, la traccia registrata ed immediata di una esperienza. L’immagine si muove nella tensione tra il qui e ora della situazione e gli squarci del reale che oltrepassano i confini della quotidianità, sia pure in forma visionaria, allucinata, fantastica. Essa parte dall’io, dalla scrittura di sé che ormai da tempo attraversa le forme espressive contemporanee, ma non può (non deve) fermarsi a questo, per mantenere aperta la sua ricerca. È probabilmente lungo questa linea di tensioni e polarità, dunque, che un ponte tra presente e passato, tra esperienza attuale e immaginazione del mondo può dare luogo ad un nuovo cinema, di cui abbiamo sempre più bisogno.
Riferimenti bibliografici
X. de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, Tarka edizioni, Mulazzo 2020.
G. Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 2016.