C’è un’inquadratura cruciale per capire La bohème di Puccini diretta da Michele Mariotti con la regia di Mario Martone, terzo (e ultimo?) esperimento cine-teatrale prodotto dall’Opera di Roma dopo Il barbiere di Siviglia e La traviata del 2021. È quella dei primi piani dei due protagonisti Mimì e Rodolfo nella scena più famosa dell’opera, il duetto del primo Quadro «Che gelida manina… Sì, mi chiamano Mimì». Entrambi sono seduti al tavolo di una spoglia cucina e ascoltano vicendevolmente il racconto dell’altro in una posa e in un’espressione totalmente realistiche. Come fosse un film, la resa reale e antifinzionale della drammatizzazione musicale avviene nel momento in cui il personaggio, invece di cantare, sembra semplicemente intrattenersi in un dialogo parlato. Un dialogo in cui la sospensione del tempo dell’Aria musicale, il suo statuto integralmente lirico e astratto, è tradotto nella semantica e nella prossemica del discorso verbale.

Stacco, altro momento chiave. All’inizio del quarto Quadro, Rodolfo e Marcello si confidano le loro pene d’amore dopo che entrambi hanno lasciato le loro rispettive amanti, Mimì e Musetta. Il realismo assume qui la forma più compiuta e l’azione diventa interamente drammatica quando Martone decide di trasformare la musica in una pura colonna sonora dell’immagine. Fa muovere i personaggi silenziosi e muti, lascia che il canto diventi parte del tappeto acustico extra-diegetico del film invece che l’espressione drammatica del personaggio. La finzione dell’opera è radicalmente rotta perché al canto del personaggio (ciò che sancisce il carattere anti-realistico dell’azione operistica) è sostituita l’illusione della realtà, la mimesis assoluta del cinema. In altre parole, il set prende il posto della scena, la verosimiglianza cinematografica subentra all’inattendibilità teatrale (che nell’opera lirica trova la sua forma più compiuta proprio grazie all’elemento musicale, come pensava Brecht), l’“inganno” lascia spazio alla vita stessa.

La riflessione principale a cui apre questo ennesimo e straordinario esperimento di Martone riguarda proprio questa grande contraddizione. L’essenza su cui si fonda l’intera tradizione del film d’opera, con il suo tentativo di resa realistica di un’azione anti-realistica per statuto, ripensata integralmente per dare corpo al suo esatto opposto, alla centralità della situazione scenica. Come ne Il barbiere e nella Traviata, un’operazione che da un lato dispiega il dispositivo del film operistico e la sua estetica di autenticazione della realtà mimetica dell’opera, e dall’altro concepisce quella stessa estetica col fine paradossale di far emergere l’evenemenzialità teatrale.

C’è però una differenza decisiva. Nei due casi precedenti era l’ambientazione nel teatro a mostrare di per sé l’ineludibilità dell’esperienza fisica che il film voleva mediatizzare in modo del tutto nuovo e originale. Qui invece non sono gli spazi del Costanzi ad essere usati come set ma i magazzini del Circo Massimo che ospitano i laboratori dove si realizzano le scene e i costumi delle produzioni che vanno poi in scena nel teatro romano. Questo decentramento spinge Martone a utilizzare una serie di espedienti per rovesciare la resa realistica e cinematografica del film e farla ricadere nell’opposto della situazione viva della scena. Tra i tanti, il più evidente è l’impiego dell’orchestra come vera e propria scenografia umana dell’azione, la sua fuoriuscita dalla buca del golfo mistico – concepita per “nascondere” l’artificio del teatro musicale – per essere portata su un piano di visibilità assoluta.

Tutto è visibile ed esposto al fine di creare un cortocircuito tra la macchina teatrale e la mimesis riprodotta delle immagini, tra lo spettacolo e le strategie di rispecchiamento che il film produce negli occhi e nelle orecchie dello spettatore televisivo. I piani si intersecano costantemente (la nevicata del terzo Quadro è ricreata come un set in cui si sta sparando neve finta), al punto che i personaggi attraversano senza soluzione di continuità la finzione dell’opera e l’illusione mimetica che quella stessa opera sta cinematograficamente duplicando. Dalla metà dell’Ottocento si passa agli anni ’60, i protagonisti bohèmienne diventano gli artisti “invisibili” del teatro (costumisti, elettricisti) che lavorano nel retroscena, nella parte anonima del grande ingranaggio della macchina spettacolare.

Come nei magnifici Teatro di guerra (1998) e Qui rido io (2021), incrociando i diversi registri Martone filma l’ultimo tassello del suo personale attraversamento del “dietro le quinte” in cui da sempre ritrova l’essenza stessa del teatro e della sua vocazione intimamente politica. Ma la scelta di uscire dal teatro implica anche l’apertura del film a quel fuori campo che nei primi due esperimenti rimaneva sostanzialmente ai margini. Per far ciò Martone rende immaginario e finzionale anche l’esterno, lo sottrae alla sua realtà cinematografica. Come in un film della «nouvelle vague» (esplicitamente richiamata nel quarto Quadro quando Rodolfo ha in mano una copia dei Cahiers du cinéma), la macchina a mano segue i personaggi in automobile mischiando i vicoli di Trastevere con i boulevard parigini; monta le transizioni (l’uscita al caffè Momus) con i cantanti e il coro che, in forma di concerto, si esibiscono nella grande sala delle scenografie al Circo Massimo; trasforma il corteo al quartiere latino («Ecco i giocattoli di Parpignol!») in una lunga corsa dei bambini tra le sedie vuote dell’orchestra.

Lo spazio del teatro fuoriesce da se stesso per diventare quello della città a cui si rivolge. È l’atto conclusivo di questa magnifica trilogia di opere che ricuce l’interno con l’esterno, la finzione con la realtà. Perché se il Covid (speriamo) è finito, e i teatri (contrariamente ai cinema) sono tornati a riempirsi come e più che negli anni precedenti, per poter continuare a pensare nuovi oggetti teatrali accanto alle procedure sceniche dal vivo bisognerà partire precisamente da quanto ha fatto Martone in questi due anni.

La bohème. Regia e scene: Mario Martone; direzione: Michele Mariotti; musica: Giuseppe Verdi; Maestro del coro: Roberto Gabbiani; costumi: Anna Biagiotti; fotografia: Pasquale Mari; interpreti: Jonathan Tetelman, Federica Lombardi, Valentina Naforniţă, Davide Luciano, Roberto Lorenzi, Giorgi Manoshvili; durata: 112′.

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