C’è un passaggio nel finale di Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci in cui Fabrizio e Gina assistono al Macbeth di Verdi all’inaugurazione della stagione del Teatro Regio di Parma. A un certo punto, le immagini d’archivio della serata reale interrompono il fluire drammatico dell’azione. In modo del tutto inaspettato, quasi a voler inserire il movimento finzionale del film nella realtà effettiva dell’evento teatrale, la musica di Giuseppe Verdi accompagna l’ingresso in sala del pubblico, i palchi gremiti prima dello spettacolo, filmati da qualche cinegiornale dell’epoca. Come se la totalità finzionale dell’immagine cinematografica assumesse su di sé la contraddizione ineludibile tra artificio della scena e realtà del pubblico su cui si fonda invece la pratica teatrale. Come cioè se al regime illusorio dell’immagine subentrasse quell’invisibile patto di credibilità tra vita e artificio che rende possibile l’esperienza del teatro (ancor più nel caso dell’opera lirica, in cui la finzione è raddoppiata dal canto, come pensava Brecht). In definitiva, quasi che il cinema volesse diventare teatrale: un incontro intimamente politico, nella forma dell’evento, tra il piano metastorico e ideale del testo drammaturgico (o del suo facente funzioni) e quello contingente e materiale incarnato negli spettatori, che in una singola serata, un preciso momento storico, uno specifico luogo, decidono di assistervi.
Nel film d’opera de Il barbiere di Siviglia di Rossini realizzato da Mario Martone (con la direzione d’orchestra di Daniele Gatti) per inaugurare la “stagione-covid” 2020/21 del Teatro dell’Opera di Roma, accade qualcosa di simile. Identiche immagini d’archivio, riprese di inaugurazioni più o meno recenti, interrompono e si sovrappongono al gran finale del primo atto, quando il Conte d’Almaviva entra travestito da soldato nella casa di Don Bartolo, il tutore della amata Rosina. Rispetto alla sequenza del film di Bertolucci, ciò che ovviamente manca questa volta è il pubblico che riempie il teatro, sostituito da una ragnatela di corde intrecciate che attraversano la sala dal basso in alto, come una “rete” di punti in connessione che ingabbia i movimenti e impedisce lo sguardo. Non c’è cioè quel punto di realtà presente in sala che rende la finzione dello spettacolo possibile, e che Martone decide comunque di filmare, lasciando il telespettatore alle prese con la sua invisibilità. È assente – proprio perché la macchina da presa non si sostituisce allo sguardo dello spettatore, ma rende quel vuoto parte dello spettacolo – il referente fisico a cui l’evento è rivolto e grazie a cui può esistere.
A cosa esattamente stiamo assistendo allora, guardando in televisione questa prima romana? In che consiste precisamente lo “spettacolo” concepito e realizzato da Martone? È una domanda a cui non è facile rispondere perché non abbiamo in realtà alcun precedente. Si tratta in primo luogo di un film registrato e rimontato, che mette in scena fedelmente l’opera di Rossini utilizzando il dentro e il fuori del teatro, dal proscenio alla platea, dal foyer a piazzale Beniamino Gigli, fino a una lunga corsa in moto nelle vie di Roma durante la cavatina di Figaro (Largo al factotum) del primo atto. Non è dunque un’“opera live”, come furono le storiche edizioni di Tosca (1990) e La traviata à Paris (2000) firmate da Giuseppe Patroni Griffi, o quella del Rigoletto a Mantova (2010) diretta da Marco Bellocchio, e nemmeno un film d’opera classico, in cui il piano teatrale è interamente tradotto in uno cinematografico.
Rappresentando l’intera opera nello spazio indifferenziato del teatro ciò che Il barbiere di Martone ci mostra in definitiva è il suo vuoto, la sua irriducibile infilmabilità. È un apparente paradosso in cui la dimensione impersonale del teatro da remoto, tipica dei recenti esperimenti di trasmissione mediale dell’evento teatrale, giunge a un punto aporetico in cui l’assenza fisica dello spettatore diventa il vero centro nevralgico dello spettacolo. Ogni elemento, dalla messinscena alla regia televisiva, curata da Martone stesso, è concepito in questo senso: la macchina da presa posizionata nei punti ciechi del teatro (le quinte, le uscite); il personale del retroscena (sarti, macchinisti) che segue i cantanti durante l’azione perché tanto non c’è un pubblico ad osservare; la luce costantemente accesa in sala; l’anarchia assoluta dei movimenti degli attori-cantanti che, in mancanza dello spettatore, possono essere ovunque (nella buca dell’orchestra, mentre interagiscono con il direttore, in piedi sulle poltrone). Tutto è pensato in funzione di una assenza che il telespettatore deve avvertire durante l’intera opera. L’esatto opposto di ciò che accadeva nelle storiche registrazioni televisive degli spettacoli di Eduardo, per fare un esempio tradizionale, in cui il buio della quarta parete sostituiva lo sguardo materiale del pubblico. O ancora meglio nelle attuali produzioni streaming dal vivo proposte da teatri importanti come il Covent Garden di Londra.
Lo sguardo che per Martone nessun occhio meccanico è in grado di colmare prende allora corpo nell’immagine iconica che rimane impressa a chi guarda da casa: Fiorello, il servo del Conte d’Almaviva, seduto da solo in platea dopo il Preludio. Con le mani giunte.
Il barbiere di Siviglia. Regia e installazione: Mario Martone; direzione: Daniele Gatti; musica: Gioacchino Rossini; Maestro del coro: Roberto Gabbiani; costumi: Anna Biagiotti; luci: Pasquale Mari; interpreti: Ruzil Gatin, Vasilisa Berzhanskaya, Alessandro Corbelli, Andrzej Filończyk, Alex Esposito, Roberto Lorenzi; durata: 100′.