Le due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata realizzate dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Mario Martone e la direzione di Daniele Gatti rappresentano forse l’unico evento realmente significativo nel panorama teatrale italiano (e non solo) dell’epoca Covid. Le ragioni sono molte e complesse e non risiedono unicamente nell’originalità con cui Martone ha trovato una strada per risolvere il più radicale e estremo compromesso che il teatro abbia mai vissuto (l’assenza dell’esperienza dal vivo), quanto per il modo in cui, a partire da quel compromesso, è stato in grado di ripensare un intero genere teatrale e cinematografico: il film d’opera.
Con la produzione de Il barbiere di Siviglia dello scorso dicembre eravamo rimasti a una riflessione al cui centro c’era il presente pandemico e l’assenza del pubblico in sala. Tutto lo spettacolo filmato era basato su un lavoro sul vuoto del teatro, sulla mancanza dello spettatore come suo punto limite (la platea deserta, le corde della macchina scenica che la attraversavano), e sulla costante dialettica che la rappresentazione instaurava con il fuori e con il presente (dall’uso delle mascherine da parte dei cantanti alla lunga corsa in motocicletta per le strade di Roma durante l’Overture). In quella produzione il tentativo di Martone, in altre parole, era di formulare una via di fuga cinematografica dalle limitazioni imposte allo spettacolo dal vivo lasciando al tempo stesso che quelle stesse limitazioni fossero dialetticamente visibili e filmabili.
Quattro mesi dopo (anche se il film è stato realizzato a febbraio, come recitano i titoli di coda), la messinscena de La traviata di Verdi compie uno scarto radicale. Il dispositivo teatrale-cinematografico è lo stesso (la messinscena filmata e montata nei luoghi del teatro) ma il risultato è completamente diverso e per certi versi spiazzante. Il posto dello spettatore che ne Il barbiere rimaneva simbolicamente vuoto, qui è interamente reso parte della dilatazione scenica dell’opera di Verdi. La platea è infatti ricoperta da una piattaforma che la trasforma nel salone delle feste nel primo e nel secondo Atto; i palchi e i corridoi del teatro sono gli ambienti della casa parigina di Violetta; il loggione è il balcone della casa di Flora in cui si rincontrano i due amanti. La finzione teatrale, in altri termini, è progressivamente abbandonata (come mostra metaforicamente il gesto di Giorgio Germont quando fa cadere una ad una le tele dipinte della scenografia ottocentesca durante il duetto con Violetta) e l’artificio scenico lascia spazio all’illusione mimetica cinematografica.
La macchina da presa non filma dunque il vuoto del teatro (come ne Il barbiere), ma lo riflette quasi fosse un vero e proprio set cinematografico che risponde a leggi interamente realistiche e diegetiche. La breve sequenza del corteo carnevalesco osservato da Violetta dalla sua casa-teatro è infatti l’unico momento in cui il film costruisce un rapporto acronico con l’attualità. Per il resto, ogni rara uscita dal perimetro del Costanzi (il duello tra Alfredo e il barone o il viaggio in carrozza di Alfredo) è inserita all’interno del tempo diegetico dell’opera, attraverso i costumi e la scenografia ottocenteschi, ed evoca il presente in termini puramente simbolici (le rovine della campagna romana che fanno da sfondo sostituiscono quelle socio-politiche attuali). Il piano cinematografico inghiotte l’azione drammatica al punto tale che addirittura l’“Addio del passato” del terzo Atto è realizzato attraverso un flashback cinematografico interno che rimanda alla festa e all’incontro tra Violetta e Alfredo all’inizio dell’opera.
Ma dentro questa macchina mediale così complessa e stratificata, l’intuizione principale di Martone consiste nell’avvicendare il piano finzionale del teatro con quello mimetico e cinematografico, utilizzando il dispositivo del film d’opera col fine paradossale di far emergere l’evenemenzialità teatrale. Martone ricuce in un sol colpo una cesura interna a tutta la tradizione operistica novecentesca, nella maniera in cui inserisce il regime della rappresentazione in quello della narrazione filmica per esaltare dialetticamente il livello della pura performance teatrale e musicale. Si tratta di un modo estremamente originale per risolvere una contraddizione che, da sempre, il film d’opera aveva mostrato in tutta la sua evidenza, ovvero che l’azione cantata è per sua natura la resa oggettiva della finzione drammatica. Il paradosso su cui si basa tutta la tradizione del film d’opera è cioè quello di rendere realistica un’azione anti-realistica per statuto, come quella musicale operistica. Nel cortocircuito che Martone sceglie di realizzare (girare un film d’opera realistico utilizzando la scenografia teatrale per celebrare l’esperienza finzionale del teatro) emerge tutta la complessità di una forma il cui limite storico è esistito proprio a partire da questa contraddizione fondativa.
Non a caso, quello di riconsegnare l’opera attraverso un uso cinematografico della macchina teatrale e musicale era stato il grande sogno inseguito da Joseph Losey (Don Giovanni, 1979) e Ingmar Begman (Die Zauberflöte, 1975). Anche la straordinaria fuga in avanti rappresentata dalle opere parallele di Carmine Gallone (Avanti a lui tremava tutta Roma, 1946; Carmen di Trastevere, 1962) intendeva in definitiva risolvere questa contraddizione sostituendo integralmente il dispositivo teatrale con uno cinematografico del tutto nuovo e originale. O ancora nelle opere dal vivo di Marco Bellocchio (Rigoletto a Mantova, 2010) e Giuseppe Patroni Griffi (Tosca, 1992), l’Aufhebung consisteva nel ri-mediare l’opera in tempo reale nei suoi luoghi d’origine. Ciò a cui nessuno di loro aveva pensato però, perché non alla prese con i limiti del presente pandemico, era di utilizzare il teatro come set cinematografico e costruire uno spettacolo per immagini, riannodando la mimesis con la finzione per realizzare, come ultimo paradosso, un’opera filmica e teatrale allo stesso tempo.
Lo ha intuito in modo geniale Martone, cogliendo un limite tragico della nostra epoca e trasformandolo in un elemento di forza. È un punto di partenza su cui è possibile continuare a lavorare, anche in un futuro di libertà. Ma è importante che oggi, nel 2021, l’unico contributo realmente significativo alla ricerca teatrale (e cinematografica) contemporanea provenga dall’Italia.
La traviata. Regia e scene: Mario Martone; direzione: Daniele Gatti; musica: Giuseppe Verdi; Maestro del coro: Roberto Gabbiani; costumi: Anna Biagiotti; fotografia: Pasquale Mari; interpreti: Lisette Oropesa, Anastasia Boldyreva, Angela Schisano, Saimir Pirgu, Roberto Frontali, Rodrigo Ortiz; durata: 125′.