Anche se non in maniera esplicita, il secondo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili sembra contribuire ad arricchire il numero di film dell’81ª edizione del Festival di Venezia che presuppongono l’avvento di un disastro incombente o già in corso, insieme a Cloud di Kurosawa e The Room Next Door di Almodóvar. Vincitore del Premio speciale della giuria, April presenta una Georgia che perde i suoi riferimenti territoriali, divenendo rappresentazione di un mondo ormai in rovina, degradato e desolato, in cui i pochi abitanti “rimasti” vivono in luoghi spogli, fatiscenti, più baracche che abitazioni, più rifugi che accoglienti dimore.

A incombere per tutta la durata dell’opera è la percezione di un pericolo, di una minaccia, prossima, imminente. È un’atmosfera, un clima di degradata angoscia, che la regista costruisce accuratamente fin da principio. Il film inizia in una dimensione oscura dove, nella parte superiore dell’inquadratura, si erge un mostruoso corpo antropomorfo, immobile e riflesso su una superficie liquida. Non proprio un luogo simbolico, quanto piuttosto la materializzazione dello spazio in cui risiede l’immateriale, il luogo dell’anima e quindi della verità, quell’altrove profondo che evoca il cinema di Jonathan Glazer: dalla caverna di Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia (2000) alla melma di Under the Skin (2013). Un nero videoartistico che annulla le coordinate spaziotemporali facendosi non luogo, dimora dell’invisibile.

In April si assiste allo spettro di una catastrofe tanto concreta quanto spirituale. L’apocalisse biblica, la fine dei tempi. Esplicativa la sequenza del temporale, che con le sue nuvole e la sconfinata distesa di fango sembra spegnere il sole come in Il cavallo di Torino (Tarr, 2011). Nina, la protagonista, non può che abbandonare l’auto impantanata e cercare rifugio in una casetta nei paraggi, sperduta nel nulla del buio dei campi. Un uomo l’avverte: “Là fuori può essere pericoloso”. Eppure, per quanto si è visto, il monito potrebbe, o dovrebbe, non riferirsi soltanto al meteo. Il rapporto di subalternità tra il padre padrone e la figura della donna (figlia, moglie, sorella) all’interno delle mura della casetta conferma una dinamica di potere che caratterizza i rapporti interpersonali dell’universo filmato.

Dal punto di vista sociale – sempre che si possa parlare ancora di società – a essere rappresentato è un contesto radicalmente maschilista, che giustifica e normalizza il dolore femminile. L’essere obbligate ad affrontare il parto, secondo un’idea procreatrice della donna sottomessa al fallo, esente dal dolore e inquadrato a riposo. L’aggressione subita da Nina per aver chiesto a uno sconosciuto di toccarla, di ricevere a sua volta piacere dopo avergli praticato una fellatio. La ragazza uccisa dal padre, rea di aver scelto di abortire venendo meno alla propria “funzione”. È un mondo prosciugato, distrutto da un’umanità misogina che esercita un controllo coercitivo sul corpo della donna. A dominarlo è la morte, onnipresente elemento che apre (un neonato indesiderato, pochi minuti dopo essere stato partorito) e chiude (un uccellino che si schianta su una finestra, subito dopo aver nominato Dio) la vicenda, in cui la non nascita si trasforma in uno strumento di prevenzione della sofferenza.

Ginecologa, ostetrica, donna di scienza, la protagonista svolge un ruolo assistenziale nei villaggi circostanti, aiutando di nascosto le giovani donne praticando aborti o fornendo pillole contraccettive. L’atto di abortire diventa così ora un’esplicita rivendicazione della libertà femminile contro l’oppressione maschile, ora un implicito tentativo di accelerare quell’apocalisse in corso. Un’umanità del genere, difatti, non merita un futuro. È un atto vissuto da Nina in modo duplice: da un lato è la risposta a un’esigenza, la necessità di agire, dopotutto “Qualcuno dovrà pur farlo” a costo di farsi carico delle conseguenze (etiche, morali, legali); dall’altro è una responsabilità che consuma e deteriora lo spirito, riversandosi sulla vita personale (sentimentale, sessuale, mentale). 

Pur spento, il corpo materiale di Nina è un corpo che vuole essere mostrato e desiderato sessualmente dagli uomini. Indicativa la scena in macchina, in cui la donna mostra il seno a uno sconosciuto che non è mai inquadrato, rilegato sempre fuori campo, rappresentante anonimo dell’universo maschile. Mentre l’immagine del corpo interiore, dell’anima, lascia trasparire il suo vero aspetto: un’anatomia mostruosa, non umana, segnata dalle continue vessazioni fisiche e psicologiche, che l’han portata a non riuscire ad avere rapporti sentimentali negli ultimi otto anni. Ciò contribuisce ad alimentare l’atmosfera apocalittica fatta di lande desolare abitate da corpi vuoti, umani non umani.

All’ultima morte materiale segue difatti un ritorno nel profondo, nell’interiore. April si conclude tornando nell’oscurità introduttiva, dove i bagliori cangianti di un ennesimo temporale che si staglia sullo sfondo ne rivelano ora l’ambientazione bucolica e infernale. Non c’è più differenza tra i non luoghi dell’anima e la realtà empirica. L’apocalisse è ormai giunta. Le tenebre poco alla volta si distendono in un campo lunghissimo che mostra il principio della fine del mondo, abitato dal mostruoso antropomorfo.

Pur aprendosi con una ripresa esplicita di un parto e mostrando in diverse occasioni una violenza percepita come gratuita, Kulumbegashvili riesce a non scadere mai nell’edulcorazione della violenza o dell’estremo. Gratuità presente soltanto sul piano diegetico, mentre nell’economia narrativa è sfruttata per intensificare un preciso clima di oppressione maschile, in cui la violenza è esercitata per l’appunto gratuitamente. La regista sembra consapevole del ruolo del mostrare e di quanto, talvolta, sia più efficace omettere lavorando sul non mostrato tramite il fuori campo. Durante l’interruzione di gravidanza di una giovane, la camera, in modo quasi ieratico, rimane per tutto il tempo fissa e immobile sulla mano della madre che stringe con forza quella della figlia. L’operazione, il sangue, i genitali, sono lasciati alla ricostruzione mentale dello spettatore, veicolata e stimolata dai leggeri rumori off e dalle contrazioni del corpo della ragazza.

Il rigore della regia contribuisce a dare un senso di severità all’opera, creando una paradossale dinamica di avvicinamento e allontanamento del pubblico. I pochi(ssimi) movimenti di macchina sono realizzati da una camera spesso larga, ferma, fissa, che tuttavia non poggia su un cavalletto o su un supporto stabile. Il leggero e perenne fluttuare della camera a mano diventa segno dell’instabilità del mondo fenomenico, ma anche l’emulazione dello sguardo di un osservatore, che da buon voyeur scruta immobile attraverso la lente dell’obiettivo. Uno spettatore onnisciente, l’occhio astratto del giudizio, che alimenta la dimensione spirituale e apocalittica.

April si inserisce perfettamente nella catena della tradizione esteuropea, fatta di austerità, lunghi silenzi, ambientazioni decadenti e atmosfere disincantate. Difficile non pensare allora al regista lituano Šarūnas Bartas, il cui cinema lavora sulle possibilità del linguaggio cinematografico di far emergere l’invisibile tramite il materiale – da Trys dienos (1991) a Lontano da Dio e dagli uomini (1996), da Freedom (2000) a Seven Invisible Men (2005). Kulumbegashvili sembra seguirne la lezione, con scelte registiche che danno fiducia a quell’invisibile che il rumore del vento, i lunghi silenzi, il cambio di colore del cielo, l’imponenza dell’oscurità, possono raffigurare e trasmettere.

April. Regia, sceneggiatura: Dea Kulumbegashvili; fotografia: Arseni Khachaturan; montaggio: Jacopo Ramella Pajrin; musiche: Matthew Herbert; interpreti: Ia Sukhitashvili, Kakha Kintsurashvili, Merab Ninidze; produzione: First Picture, Frenesy, Memo Films, Independent Film Project; origine: Georgia, Francia, Italia; durata: 134’; anno: 2024.

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