L’ultimo film realizzato da Kyioshi Kurosawa segna un duplice ritorno per il regista giapponese. Da un lato al Festival di Venezia, presentato Fuori Concorso con un’inaspettata proiezione di mezzanotte, a quattro anni di distanza dalla vittoria del Leone d’argento per la migliore regia con La moglie di una spia (2020). Dall’altro alle atmosfere J-Horror tipiche del suo cinema passato, che svolsero un ruolo fondamentale nella riscrittura dell’immaginario orrorifico giapponese tra la fine degli anni novanta e i primi del duemila, insieme alle opere di Hideo Nakata. Quest’ultimo ritorno, però, sembra vero solo in parte.
Fin dal titolo, Kurosawa traccia un esplicito trait d’union tra Cloud e Kairo (2001), horror in cui gli spettri invadono l’allora neonato web. Si evoca il cloud computing, l’unità d’archiviazione digitale offerta agli utenti attraverso la rete. Il contesto è quindi di nuovo quello di internet, qualcosa di (apparentemente) astratto, intangibile. Più di venti anni dopo, tuttavia, la fascinazione e lo sguardo con cui il regista guarda a quel mondo, a quella dimensione, hanno subito un’evoluzione radicale, influenzata dal cambio di percezione e dal peso che la tecnologia ha iniziato a esercitare nella vita quotidiana. Cloud narrativizza al suo interno il passaggio dall’astrattismo del J-Horror soprannaturale alla contemporanea necessità di ancoraggio al concreto, al reale.
Nella prima metà il film gioca con le aspettative del pubblico, alimentando un’atmosfera fatta di ombre fugaci sui muri o dietro le finestre, di presenze che non ci è permesso vedere ma che minacciano di comparire da un momento all’altro per sconvolgere noi e il protagonista. Come nel mediometraggio Chime (2024), presentato mesi prima al Festival di Berlino, fondamentale è il ruolo svolto dal controcampo, che in tre differenti occasioni – per un cavo d’acciaio, un passeggero del bus e un suono che turbano il protagonista – ci è negato, trasformandosi in fuori campo. Esso è percepito come rappresentazione di un qualcosa non mostrato, ma che ben presto si comprenderà esserlo di quell’invisibile che si para di fronte allo sguardo, o meglio alla mente, di Ratel.
Queste aspettative sono tradite nel corso della seconda metà, facendo scivolare la dimensione orrorifica verso contesti più vicini all’home invasion o al revenge movie, con elementi appartenenti al thriller o all’action. Un’azione statica, di certo non adrenalinica, simile a quella vista in Seventh Code (2013), in cui le dinamiche sono svuotate del loro caratteristico pathos. Commistione di generi e inafferrabilità identitaria contribuiscono ad accrescere un senso di spaesamento nello spettatore, amplificato da un perenne e inspiegabile clima di tensione che aleggia per tutta la durata (in ogni gesto, sguardo, frase).
Se Kairo a inizio Millennio pensa a internet come a un luogo in cui risiede il Male, Cloud subisce l’influenza del tempo optando per direzioni più terrene: non è internet di per sé a rappresentare il Male, bensì l’utilizzo che gli esseri umani ne fanno e come esso li ha plasmati. È un passaggio dalla sfiducia nei confronti del mondo tecnologico a quella dell’umanità tout court. I fantasmi del primo vengono così sostituiti da persone in carne e ossa, l’orrore da soprannaturale diventa realistico, e perciò verosimile. Ma, ancora una volta, questo sembra vero solo in parte.
I corpi che minacciano il protagonista – reo di essersi voluto arricchire tramite reselling truffando persone online, astratte, e di conseguenza percepite come non reali, inesistenti – mantengono difatti una certa evanescenza nella gestualità, nei comportamenti e nelle motivazioni. Sono corpi (consumers) che si muovo al limite della goffaggine, non efficientemente, fallendo in modo pietoso contro Ratel e il suo assistente (sellers), che di contro agiscono – perché sanno agire o perché possono agire – con efficiente professionalità. Il tessuto fenomenico non smette quindi di essere popolato da fantasmi, mentre a cambiare sono le modalità con cui si pensano e raffigurano.
Non c’è più bisogno di ombre e presenze maligne. Gli account diventano i nuovi spettri dell’epoca tecnologica, dietro cui si celano però persone che abitano il mondo tangibile e che subiscono le conseguenze di quello virtuale. Un meccanismo di sovrapposizione, in cui il materiale diventa immateriale, che innesca un cortocircuito per cui i personaggi si comportano secondo dinamiche che appartengono più al web che non alla vita reale. Ecco allora che la spedizione punitiva organizzata ai danni del truffatore emula le orme dell’hating o della shit-storm; l’arma acquistata dall’assistente da un contrabbandiere di strada richiama la compravendita, mitizzata, del dark web; l’uomo con maschera e guanti parodizza l’utente anonimo, che usa nickname o profili falsi.
Tutto ciò definisce un mondo che – come di consueto nella filmografia di Kurosawa – non può che essere destinato al caos, “all’inferno”, a una catastrofe sociale e globale percepita come prossima. La scelta del reseller come mezzo per veicolare la narrazione, e come unica figura in grado di far fronte con successo all’aggressività della nuova collettività digitale, mette in luce i valori necessari per sopravvivere nell’aggiornato capitalismo contemporaneo: cinismo, freddezza e distacco emotivo. Ratel e l’assistente devono adattarsi ai tempi e “ricominciare da capo”, allontanandosi in macchina come David e Charlie in Cane di paglia (Peckinpah, 1971) dopo aver prevalso sui propri aggressori, con una maggiore consapevolezza della società che li circonda. I fari non si fan più largo nel buio di una strada rurale, ma in una nebbia apocalittica che diventa spazio di confine tra reale e virtuale, tra il mondo dei vivi e quello degli users. Una sottile ambiguità di cui Cloud vive e che non sembra avere alcuna intenzione di risolvere.
Cloud. Regia e sceneggiatura: Kiyoshi Kurosawa; fotografia: Yasuyuki Sasaki; montaggio: Koichi Takahashi; musiche: Takuma Watanabe; interpreti: Masaki Suda, Kotone Furukawa, Daiken Okudaira, Amane Okayama, Yoshiyoshi Arakawa, Masataka Kubota; produzione: Nikkatsu Corporation, Tokyo Theatres, Django-Film Corporation; origine: Giappone; durata: 124’; anno: 2024.