Il cinema dei fratelli D’Innocenzo sembra essere attraversato dal tema dell’inconsapevolezza della colpa. Ne La terra dell’abbastanza i due protagonisti ammazzano, senza saperlo, un esponente della criminalità organizzata e da questa azione scaturiscono conseguenze drammatiche. In Favolacce, poco prima del suicidio dei due fratellini, i genitori si dicono reciprocamente che non conoscono genitore migliore dell’altro. I protagonisti sono come immersi in una nebbia fittissima, avvolti da una tragica inconsapevolezza che li condannerà e la drammaticità di queste storie forse risiede proprio nello spazio incolmabile che si apre tra loro e lo sguardo giudicante dello spettatore.

Questo tema ritorna anche in America Latina, con una differenza, però, sostanziale: protagonista e spettatore questa volta condividono la stessa condizione di inconsapevolezza. Massimo Sisti è uno stimato professionista, un family man con un buon lavoro, una bella casa, una moglie affascinante e amorevole e due figlie modello. Questo quadro perfetto si frantuma quando un giorno scende nello scantinato della sua casa e trova una bambina legata, ferita, che emette solo gemiti. Chi l’ha rapita, perché e come è finita a casa sua?

Comincia così un lungo processo di disgregazione di una vita perfetta, che ha come teatro la casa, il luogo sicuro per eccellenza, che diventa, però, una sorta di cosmo dantesco in cui alla tranquillità di una vita familiare che si svolge serenamente nel piano alto dell’abitazione fa da contraltare l’inferno di uno scantinato-discarica in cui si sta consumando la negazione della vita stessa. Massimo inizia prima a dubitare di se stesso, magari l’alcol può provocare forme di amnesia e lui potrebbe essere stato capace di un gesto simile. Poi però il dubbio della colpa tocca le persone a lui più vicine, l’amico, la moglie, le figlie. Trascinato in questo vortice delirante, tutti i pilastri della sua vita cominciano a vacillare. E nello spettatore inizia allora ad insinuarsi il dubbio su cui tutto il film si fonda: ma questa vita perfetta è reale?

Il compito che i due registi sembrano allora voler assegnare allo spettatore è quello di rispondere a questa domanda, trascinandolo nello smarrimento del protagonista. Con un certo accanimento, i continui primi piani strettissimi suggeriscono e impongono questa condizione di prossimità. L’asfissia percettiva di queste inquadrature viene interrotta da improvvisi movimenti di distanziamento, dalle riprese fisse, quasi sempre schermate da elementi trasparenti, come le finestre, che invece sembrano suggerire un punto di vista neutro da cui poter osservare la verità delle cose. Lo spettatore, anche lui un po’ ostaggio, non può far altro che seguire questa sorta di thriller psicologico, che si dispiega come una continua altalena di ipotesi e congetture.

Eppure forse proprio i due registi ci avevano lasciato un indizio su come guardare questo film. All’inizio, infatti, i titoli di testa scorrono, in modo anomalo, da sinistra verso destra, capovolgendo il normale flusso di lettura di un testo. Il suggerimento sembra essere quello di partire dalla fine per ricomporre i pezzi di una visione delirante in cui salta ogni principio di verosimiglianza. Massimo viene arrestato e in carcere sulla brandina compare distesa la moglie, con gli stessi abiti della scena precedente; sul suo sguardo interrogante rivolto alla macchina da presa il film si chiude.

Allora appare chiaro, après-coup, che nulla è come sembra, e lo spettatore si può lasciare andare alle più diverse supposizioni, come in un videogame dai mille percorsi in cui tutto è possibile. È stata tutta un’allucinazione di una mente alla deriva? La vita infernale era quella reale e il paradiso non è mai esistito? L’unica relazione vera di Massimo è quella con il padre, dal cui confronto drammatico emergono il disagio e la solitudine del protagonista? Non c’è stato alcun percorso di disfacimento perché la famiglia perfetta è una pura illusione? In questa prossimità imposta, questa sovrapposizione tra la condizione di Massimo e quella dello spettatore, sta a simboleggiare metaforicamente un originario stato di colpa inconsapevole in cui sempre ci troviamo, quella condizione tragica che accomuna tutti gli esseri umani? 

Insieme alla plausibilità delle risposte a tutte queste domande e alle molte altre che potrebbero essere formulate sul senso del racconto, resta il dubbio più profondo: che non sia stato tutto un mero esercizio di stile?

America Latina. Regia: Fabio e Damiano D’Innocenzo; sceneggiatura: Damiano e Fabio D’Innocenzo; fotografia: Paolo Carnera; montaggio: Walter Fasano; scenografia: Roberto De Angelis; costumi: Massimo Cantini Parrini; musica: Verdena; suono: Maricetta Lombardo; effetti visivi: Chromatica; origine: Italia; durata 90’; anno: 2021. 

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