Si esce dal film appena uscito dei Fratelli D’Innocenzo, La terra dell’abbastanza, con una domanda che, almeno per me, non trova ancora risposta: perché questo titolo? Qual è, o cos’è, questa “terra dell’abbastanza”? In che senso tale espressione designa il territorio in cui si muovono i due giovani protagonisti, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano), oppure non lo indica affatto, evocandolo piuttosto attraverso il miraggio dell’“abbastanza”, di cui costituisce l’esatto contrario?

Siamo nella periferia romana. È una periferia quasi astratta nel suo mancare di chiari segni di riconoscibilità, nel suo raccogliersi attorno a luoghi pubblici d’aggregazione o a centri simbolici che potrebbero ripetersi infinite volte, in ogni periferia di Roma, di una grande città d’Italia, forse d’Europa o del mondo: il campo sportivo, il bar con le slot machine. Da questo punto di vista, il film dialoga direttamente con l’ultimo capolavoro di Matteo Garrone, Dogman. Anche lì a fare da sfondo a una storia di violenza e malavita c’è una periferia che ha perso tutti i connotati del genius loci. Garrone però trova ancora in luoghi del genere le ragioni, paradossali, della comunità, spostare l’azione dalla periferia romana in uno strano paese postmoderno in riva al mare e, nel finale del suo film, può mostrare il protagonista che si rivolge a un pubblico di amici e vicini fantasticato (forse fin dall’inizio della storia). In Dogman c’è ancora spazio per fare esperienza di una figura estrema di homo sacer, il quale, tramite la sua “esclusione inclusa” nel corpo sociale, esibisce le norme vigenti nella nostra società.

Ne La terra dell’abbastanza non c’è spazio per una simile presa di distanza critica e per la ricostruzione immaginaria del nostro sentire comune attraverso le forme e i modi di una favola inquietante. Tutto ci appare attraverso il filtro dello sguardo ravvicinato di due adolescenti, i protagonisti del film. Tutto nella storia ha l’immediatezza – nel senso proprio della mancanza di mediazioni culturali e sociali – della loro età, la sua contingenza e arbitrarietà, fin dall’inizio della storia. Manolo e Mirko sono in automobile, di notte. Non sappiamo bene cosa hanno fatto dalle parti del campo sportivo, prima di ritrovarsi alla guida della vettura; parlano di piccoli traffici da pochi decine di euro: spaccio, prostituzione, non è dato capirlo, come non è possibile comprendere se parlano di loro stessi, di loro amici, amiche o conoscenti, oppure se fantasticano semplicemente un modo di fare soldi. Fatto sta che in questa atmosfera sospesa – due adolescenti, forse appena maggiorenni, alla guida di una macchina, ancora studenti delle superiori, alla guida da soli nella notte – interviene il caso a cambiare le loro vite.

Nel buio, i due investono e uccidono un passante. Subito scatta il panico: Mirko, che è alla guida, è preda di una crisi di panico. Su proposta di Manolo, infine, vanno da suo padre (Max Tortora), che vive in una sorta di garage riadattato ad appartamento, per chiedergli il consiglio sul da farsi. Da qui inizia il vortice che porterà entrambi i ragazzi prima nel giro della malavita organizzata, poi alla morte. Danilo (Max Tortora), il padre di Manolo, consiglia loro infatti, prima di far finta che non sia successo niente, sperando che nessuno abbia visto l’accaduto, e poi, dopo aver scoperto che il morto era un “pentito” di una banda locale, di presentarsi al capo di quella banda per offrire i loro servigi. È così che i due ragazzi diventeranno sicari al servizio della mala e “custodi” delle giovanissime ragazze portate dalla banda a prostituirsi in alcune strade isolate della periferia.

Alessia (Milena Mancini), la madre di Mirko, una donna fragile, che rovescia il rapporto con il figlio, cercando lei protezione in lui, si accorge della trasformazione avvenuta nella vita del figlio, ma non ha la forza di reagire. A prima vista, Le terra dell’abbastanza è un film sull’assenza delle figure autorevoli, paterne o materne che siano. I genitori sono loro stessi adolescenti in cerca di un riscatto attraverso un colpo di fortuna (Danilo) o di un eterno corteggiamento amoroso, da reiterare anche con i figli maschi, in bilico tra la passione amorosa e la sfida tra i sessi (Alessia). Non c’è spazio per la legge, in nessuna delle sue forme; dunque nemmeno per una critica – o per una riscoperta – dell’autorità. Il film procede lungo questa linea, facendo ampio ricorso agli stilemi – perfino, a volte, ai cliché – del genere noir “dei bassifondi”, di recente rivitalizzato proprio nella formula delle periferie del disagio e del degrado. In questa prospettiva il film dei D’Innocenzo è l’ultimo di una lunga serie, di cui Lo chiamavano Jeeg Robot è forse il frutto più originale e fortunato; una serie perdipiù in dialogo continuo con il mondo delle serie di varia ispirazione, Gomorra o Terra di mezzo, e perfino con l’infotainment dei talk show televisivi, sempre molto attenti a questo genere di narrazioni, a metà tra il racconto epico, il dramma patetico e l’analisi sociologica.

Eppure, non capiremmo fino in fondo il film se ci fermassimo a questo ordine di considerazioni. Riusciamo a cogliere il senso del film appieno solo nella scena in cui il boss Angelo (Luca Zingaretti) spiega ai ragazzi una missione che intende affidare loro – uccidere un boss rivale nella baracca dove vive in Sabina – fornendo dettagli sull’azione da eseguire. Nei suoi gesti, nella retorica che usa, nel modo che ha di rivolgersi ai ragazzi – e naturalmente nel modo in cui questi recepiscono la richiesta, accettandola – emerge forse la natura più profonda di questa storia. Al di là del gergo osceno, omofobo e scatologico da piccoli delinquenti o bulletti di periferia, tutto infarcito di “frocio”, “bocchinaro” e “puzzi de merda”, l’unico vero ethos che Mirko e Manolo conoscono non è quello tipico della forma, anche minima o perversa, del codice d’onore malavitoso. L’unico “linguaggio sociale” che i due conoscono e sentono autenticamente proprio è quello dei talent, di programmi televisivi come X Factor. Mirko, in fondo, è il corrispettivo maschile della sua ragazza Ambra (Michela De Rossi): lei crede di avere talento per il canto, lui è convinto che, in coppia con Manolo, l’omicidio sia per lui qualcosa di spontaneo e naturale.

Ma non è una “natura” quella che li circonda, bensì una cultura, tanto rozza quanto potente nel suo radicamento: Angelo gli spiega l’omicidio da compiere, seduto al tavolo ormai quasi deserto del banchetto in un ristorante per una ricorrenza famigliare, con gli stessi gesti e gli identici toni che potrebbe avere Cracco che giudica il piatto di un aspirante chef – d’altronde i ragazzi vengono dall’istituto alberghiero e sognavano di diventare barman, prima di entrare nel giro – o Morgan l’esecuzione canora di un concorrente.

Una volta che ci sintonizziamo con questo livello del film, siamo costretti a rileggerne la storia indietro e avanti – l’immersione in questa dimensione televisiva e virtuale che prende il posto della realtà, “risuona” anche nella scena del cane da guardia immobilizzato con un teaser, che sembra uscita da un frame per videogiochi – per andare a scovare tutti gli elementi che convergono su questo sentimento. Forse La terra dell’abbastanza è proprio questo: una commistione chiusa e autoreferenziale di realtà e virtualità, non aperta ai possibili apporti di arricchimento che possono provenire da qualsiasi fonte, tecnologie comprese. Quando Mirko, in seguito alla morte di Manolo nell’agguato, comincia a capire cosa è diventata la loro vita e vuole reagire, dev’essere semplicemente eliminato, così come accade mentre sta per entrare nel commissariato per denunciare i suoi complici. La vita, allora, può semplicemente tornare alla normalità. Anche il tentativo di Mirko di regalare con il suo sacrificio una vita diversa alla madre, infilando una mazzetta di banconote nell’armadietto del bagno, sembra neutralizzato: la madre non è partita, continua a vivere nel quartiere, dove un giorno, al bar, per caso incontra Danilo, con cui scambia qualche battuta sulla fine dei rispettivi figli. La vita ha ripreso il suo corso.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995.
P. Montani, L’immaginazione intermediale, Laterza, Roma-Bari 2010.

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