Favolacce, l’ultimo film dei fratelli D’Innocenzo, può essere letto secondo due prospettive distanti tra loro. Da una parte c’è il piano narrativo: come afferma la voce narrante all’inizio del film, questa storia è vera, falsa e vera in quanto falsa. Dall’altra parte c’è il piano visivo, o visuale come preferiscono dire alcuni: il film si apre con lunghe e opprimenti inquadrature ravvicinate su oggetti inanimati e conserva per tutta la sua durata un’attenzione particolare per l’inquadratura straniante. Queste due prospettive rinviano ciascuna a un paradigma filosofico in tensione con l’altro. La linea narrativa rimanda senz’altro all’ermeneutica fenomenologica di Paul Ricoeur e alla sua riflessione sul racconto; la linea visiva, o visuale, rimanda alla filosofia post-bergsoniana dell’immagine di Gilles Deleuze.

Il gioco di scambio tra verità e finzione del racconto, che la voce narrante enuncia all’inizio del film, sembra costruito sulla falsariga del ripensamento che Ricoeur conduce nel primo volume di Tempo e racconto del concetto aristotelico di mimesis. È merito di Pietro Montani l’aver mostrato la pertinenza di questa riflessione per la comprensione del lavoro dell’immaginazione nel cinema. Penso in particolare alla formulazione più avanzata della mimesis che Ricoeur chiama Mimesis III, ovvero “rifigurazione” del tempo del racconto. Mettendo da parte la questione centrale per Ricoeur, ossia la comprensione della temporalità in opera nell’esperienza umana, si tratta più in generale di stabilire le forme con cui un racconto può, per così dire, asserire la significanza della materia raccontata. È il modo in cui la finzione narrativa agisce sulla realtà del lettore o dello spettatore non solo per essere confermata nella sua plausibilità, ma anche per affermare la propria capacità di riconfigurare la comprensione del mondo.

In Favolacce la possibilità di tale riconfigurazione passa attraverso la sospensione della possibilità di assegnare il racconto alla sfera del vero o dell’inventato. La voce narrante che introduce e accompagna tutto il racconto, la voce di un uomo che rievoca un fatto della sua infanzia, è riconducibile di volta in volta a due dei bambini della storia. Salvo il fatto che alla fine del film uno dei due muore, l’altro sopravvive. Si aggiunga il dato che si tratta di una storia contemporanea, mentre il fatto che sia raccontata a posteriori da uno dei suoi protagonisti come se fosse un fatto della sua infanzia la colloca in un tempo remoto.

Queste considerazioni potrebbero avvicinare la teoria del racconto di Ricoeur alla riflessione sulla croyance che si trova nell’Immagine-tempo di Deleuze, un filosofo del cinema la cui importanza è stata compresa appieno in Italia grazie agli studi di Daniela Angelucci e Roberto De Gaetano. Ma non è tanto al Deleuze filosofo del cinema che sembra guardare il trattamento dell’immagine elaborato dai D’Innocenzo, quanto al Deleuze “critico” di Francis Bacon. Logica della sensazione. In questo libro fondamentale, la cui portata oltrepassa ampiamente l’interpretazione di Bacon, Deleuze recupera l’idea di una visione aptica come quella indotta dalle immagini dell’arte egizia.

In Favolacce l’inquadratura schiacciata sugli oggetti e dei luoghi della vita quotidiana nelle case dei personaggi che apre il film funziona come una visione aptica: questa visione tocca il senso di oppressione che attraversa le vite dei personaggi grandi e piccoli. Successivamente lo sguardo si aprirà a una visione più ampia, che comprenderà gli spazi e gli esseri viventi, ma manterrà sempre il potere straniante di trasmettere allo spettatore il senso di angoscia che anima le vite di questi luoghi e di queste persone, come se l’obiettivo non smettesse mai di negoziare il proprio rapporto con la visione schiacciata dell’inizio.

Il dispositivo narrativo di Favolacce non si regge solo sul rapporto tra verità e finzione o tra immagine ottica (aperta) e immagine aptica (schiacciata). È piuttosto un rapporto tra questi due rapporti, che mette a confronto la finzione e/o la verità del racconto con l’illusione e/o l’evidenza dell’immagine. Si creano in tal modo connessioni logicamente insostenibili ma esteticamente (ed euristicamente) feconde tra finzione ed evidenza e tra verità e illusione. Ciò che è vero nel racconto si manifesta nell’illusione di un’immagine quasi onirica come quella del padre Bruno (Elio Germano), il quale squarcia di notte la piscina gonfiabile dei figli dopo un giorno di festa per poi raccontare loro che devono essere stati vicini invidiosi o una banda di rom. Ciò che è evidente nell’immagine, l’angoscia che conduce i bambini ad architettare più o meno consapevolmente un suicidio, ha un’eco nella finzione narrativa del fatto di cronaca della giovane coppia di sbandati, i quali prima affogano il figlio appena nato e poi si suicidano dopo una lite.

Questo dispositivo alla seconda potenza, questo chiasma dei rapporti tra immagine e parola del racconto, non ha niente a che fare con il realismo inteso in senso corrivo, con il puro rispecchiamento della realtà (psicologica, sociale) delle relazioni umane. Tuttavia diventa il mezzo attraverso cui i D’Innocenzo raccontano un luogo impossibile ed eppure esistente. Questo luogo impossibile eppure reale è facilmente riconoscibile da chiunque conosca la realtà non solo di Roma ma di molte metropoli occidentali. Questa periferia non è né borgata né quartiere residenziale: in essa le villette convivono con le più precarie roulotte.

I riti borghesi del ritrovo domenicale tra vicini o del mercatino dell’usato convivono con l’espressione delle pulsioni, innanzitutto sessuali, più primitive e immediate, che confondono i rapporti tra le generazioni e tra i ruoli, come quando la giovane bidella incinta Vilma (Ileana D’Ambra) spalma sul biscotto che dà da mangiare al piccolo scolaro Dennis (Tommaso Di Cola) una goccia del latte stillato dal suo capezzolo. È un passaggio illuminante nella sua stessa contestabilità nei termini di un’etica dell’immagine: con la falsità di questo “montaggio proibito”, che era evidentemente il solo modo possibile di mostrare un gesto simile, i D’Innocenzo esibiscono l’assoluta verità della povertà di relazioni che hanno perso qualsiasi cornice etica.

Questa periferia non è più nemmeno periferia, lontananza rispetto a un centro: è pura marginalità in uno spazio senza coordinate. Di questa povertà economica e soprattutto culturale il finale dà una spiegazione definitiva. L’angoscia della morte produce in questa marginalità solo un nichilismo regressivo, intonato al canto medievale che accompagna i titoli di coda. Anche quando gli abitanti di questa marginalità incontrano l’opportunità di progettare qualcosa, come accade ai bambini con le nozioni scientifiche apprese da un insegnante appassionato ma disilluso, la presa di (in)coscienza che ne segue genera il piano aberrante di anticipare la morte.

Riferimenti bibliografici
D. Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema, Quodlibet, Macerata 2012.
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
R. De Gaetano, La potenza delle immagini, ETS, Pisa 2012.
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2007.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini, Milano 1999.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 1, Jaca Book, Milano 2016.

Favolacce. Regia: Fabio D’Innocenzo, Damiano D’Innocenzo; sceneggiatura: Fabio D’Innocenzo, Damiano D’Innocenzo; fotografia: Paolo Carnera; montaggio:Esmeralda Calabria; musiche: Sparkle in Grey; interpreti: Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta, Ileana D’Ambra; produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema, Vision Distribution, Amka Films Productions, RSI; distribuzione: TIMvision; origine: Italia, Svizzera; durata: 98′.

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