Mentre monta Povere creature!, Yorgos Lanthimos gira il film a episodi Kinds of Kindness. È il fratello minore di una tra le opere più acclamate della stagione? Crediamo di no. Siamo anzi convinti che Kinds of Kindness, pur condividendo l’idea di esplorare i recessi più profondi e inquietanti della natura umana attraverso il filtro dell’assurdo e del surreale, sia per certi versi più radicale di Povere creature! Il finale di quest’ultimo lascia aperto uno spiraglio all’ottimismo e alla speranza: prima di morire, il dottor Godwin “God” Baxter (Willem Dafoe) riconosce e approva la trasformazione della sua creatura Bella (Emma Stone), diventata una donna forte ed emancipata. È ancora contemplata la possibilità che un Dio (God) guardi alle sue “povere creature” con misericordia e compiacimento. Un simile sguardo è assente in Kinds of Kindness. L’assurdità delle tre storie narrate è disperante, perché vi è mostrato come la vita appartenga alla sfera del caso; tuttavia la vita non smette di esibire una continua tensione verso la trascendenza alla ricerca di un senso.
Il primo episodio di Kind of Kindness, “La morte di R.M.F.”, rientra a pieno titolo nella tradizione dei film a episodi. Sembra quasi prelevato da un classico del genere: I mostri di Dino Risi. La storia si adatta perfettamente all’idea di una rassegna di mostruosità ai limiti dell’immaginabile: un capo esercita il suo potere in modo incomprensibile e sottile; un sottoposto subisce in silenzio le angherie, diventando alla fine complice della cattiveria del capo. Le analogie si arrestano però a questo punto. Nel film di Lanthimos manca infatti la via d’uscita del grottesco, che dà senso alle assurdità più enormi. Per intenderci, Raymond (Willem Dafoe) non è un sadico megapresidente, così come Robert (Jesse Plemons) non è un servile e masochista ragionier Fantozzi. Un tono grottesco avrebbe garantito al racconto un esito meno inquietante, con il ritorno a una realtà in cui i potenti godono nel riaffermare le differenze che li separano dai loro sottoposti. E questi, dal canto loro, si ritagliano uno spazio di libertà nella vita quotidiana, dove riproducono le stesse modalità di sopraffazione. Nella logica del grottesco, quando l’identificazione tra vittima e carnefice giunge a compimento, la realtà si vendica: nell’”Educazione sentimentale”, episodio d’apertura dei Mostri, il figlio, già allevato dal padre a essere prepotente, una volta diventato adulto lo uccide. Invece, nella “Morte di R.M.F.” l’impiegato fedele, ostracizzato per non aver obbedito, non si vendica contro il padrone, ma alla fine, disperato, esegue l’assurdo ordine di uccidere lo sconosciuto R.M.F. Il premio è l’abbraccio del padrone, pieno di ambigui riferimenti erotici.
“La morte di R.M.F.” è una sorta di (contro)manifesto della cultura neoliberista del merito, che l’America rappresenta in modo esemplare. Il potere non si fonda più sulla distanza, come nella vecchia dialettica tra servo e padrone. La distanza è inconcepibile per un paese come l’America, che secondo Tocqueville ha elevato l’eguaglianza tra individui a elemento centrale del proprio spirito nazionale. Il potere si fonda ormai sul desiderio narcisistico di rispecchiarsi nell’altro, annullando ogni differenza. Nell’esercizio del potere, come insegnano le insensate richieste di Raymond, non conta l’efferatezza degli ordini impartiti: a spingere il capo sono l’ansia di controllo e il bisogno di gestire le vite degli altri, omologandole al proprio ideale. Il capo neoliberista non è veramente un padrone: è piuttosto un motivatore, un manager della vita, un coach dello spirito. Dietro l’insensatezza delle sue richieste c’è il desiderio di fare dell’altro un’immagine di sé.
Nel secondo episodio, “R.M.F. Vola”, Daniel (Jesse Plemson), un classico poliziotto americano, è triste e turbato da quando la moglie Liz (Emma Stone) risulta dispersa su un’isola a seguito di un naufragio. La mancanza di Liz diventa sempre più dolorosa; al tempo stesso, però, la vicenda è raccontata con toni patetici. Le carezze che prima dava alla moglie, ora Daniel le offre a un detenuto ammanettato nel suo ufficio: lo vediamo mentre con gentilezza gli sfiora il volto e gli sposta i capelli dietro l’orecchio. Di fatto, l’andamento logico degli eventi salta quando il regista ci propone uno sdoppiamento della narrazione in due storie alternative: da un lato assistiamo alla progressiva immersione di Daniel in una vicenda ai limiti del paranormale; dall’altro, Liz si ritrova a gestire un marito sempre più folle e incontrollabile. Il tutto si concretizza in un teatro dell’assurdo esemplificato dall’incomunicabilità tra le due storie, che, sebbene intrecciate, ritraggono due personaggi isolati e chiusi nel proprio dramma personale. Entrare in contatto con l’altro significa, in particolare per Daniel, credere irrazionalmente che l’altro – o meglio l’altra – debba soccombere, contro ogni evidenza contraria. Lanthimos, dunque, nega a monte la possibilità di una risoluzione del palpabile non-senso su cui si regge l’episodio.
Accade così che Daniel perda il controllo quando non riesce ad accettare alcuni atteggiamenti nuovi e inusuali della moglie al suo rientro: Liz mangia la cioccolata che prima detestava e non ricorda più qual è la canzone preferita del marito; le scarpe le calzano strette. Daniel si convince che quella donna non sia in realtà sua moglie. La psicosi giunge al culmine quando la devota Liz, per far tornare le cose a uno stato di ordine, diviene complice del marito: obbedisce, quando lui, deciso a farla fuori, le ordina, prima di mozzarsi un dito, poi di cucinargli il suo fegato. Al termine di questa carneficina delegata alla vittima, bussa alla porta di casa, la “vecchia-vera” moglie di Daniel, finalmente ritornata. Un abbraccio tra i due coniugi scioglie momentaneamente la tensione avvertita dagli spettatori nel finale: Lanthimos è riuscito ancora a mandarci in crisi.
Nel terzo episodio, “R.M.F. mangia un sandwich”, Emily (Emma Stone) e Andrew (Jesse Plemons) sono adepti di una setta guidata da Omi (Willem Dafoe) e Aka (Hong Chau). I due adepti attraversano l’America su una macchina sportiva, che ricorda i telefilm d’azione degli anni ottanta. L’estetica del telefilm vintage è d’altra parte un tratto caratteristico del film, a partire dai titoli di coda che chiudono ogni episodio. Emily e Andrew cercano una mitica salvatrice, capace di resuscitare i morti. Su una lussuosa barca, ancorata al largo della tenuta dove vive la comunità, Omi e Aka hanno progettato una sorta di eremo-santuario per questa mitica salvatrice. D’altronde, la loro comunità ricorda più un centro per il benessere psico-fisico che una vera e propria religione. La decisione di espellere un fedele è presa dopo estenuanti sedute detox in sauna, quando Aka, leccando la pelle dell’interessato, ne stabilisce il grado di purezza. E la purezza si mantiene votandosi a un’attività sessuale condotta esclusivamente con gli stessi Omi e Aka.
Nell’ultimo episodio, l’indagine di Lanthimos sulla nuova American way of life – che non è un fatto solo americano, ma riguarda perlomeno tutto il mondo occidentale – torna alle sue profonde radici religiose. È superfluo sottolineare fino a che punto sia presente in questo episodio, come nelle fantasie di cannibalismo del precedente, il fantasma di un(a) messia che, attraverso il sacrificio del proprio corpo, redime gli esseri umani dalla loro condizione mortale. La salvezza, nel cristianesimo, viene da un dio che si fa uomo incarnandosi in un corpo offerto in pasto ai credenti per la loro vita eterna. Quella di Lanthimos, e del nostro mondo, è naturalmente una versione caricaturale del messianismo cristiano, in cui Emily, nonostante sia stata esclusa dalla comunità, riuscirà a trovare la salvatrice, rapendola per consegnarla ai suoi guru. La rivelazione del messia si risolve nella gioia del successo per la missione compiuta, gioia che si condensa nel ballo della ragazza prima di affrontare un nuovo spericolato viaggio in automobile con la “preda” catturata. Il ballo è quasi un omaggio di Emma Stone alla Uma Thurman di un “classico postmoderno” come Pulp Fiction. Ma Stone, a differenza di Thurman, balla da sola: non c’è condivisione, né delle assurdità né dei momenti di felicità della vita. Chiusa nel suo mondo, Emily commette un errore fatale: dimentica che anche la salvatrice è mortale. Basta una banale distrazione, forse l’effetto paradossale di un’incontrollabile ansia di controllo, a causare l’incidente in cui muore Ruth (Margaret Qualley), la ragazza capace di resuscitare i morti.
Dopo Stanley Cavell, sappiamo che sullo schermo del cinema non scorrono semplicemente immagini, ma “visioni” (views) del mondo, che comunicano il divenire dei sentimenti di fronte a una realtà in continua trasformazione. Le nostre stesse vite sono comprese nel processo di questo incessante cambiamento. Ma il cinema non racconta i sentimenti del reale e della vita come fenomeni completamente soggettivi. Né le immagini del cinema si limitano a mostrare parti della realtà: esse esibiscono visioni del mondo che evolvono insieme alla trasformazione della realtà. Sguardo e schermo si fondono. Così, è lecito parlare di schermi melodrammatici, tragici, comici, scettici e via discorrendo, come se si trattasse di altrettante concretizzazioni del sentire. Il cinema postmoderno può essere visto, ad esempio, come un’apoteosi della visione scettica del mondo: nei film di Tarantino o dei fratelli Coen, la distanza ironica dagli eventi fa sì che niente possa essere creduto fino in fondo.
L’assurdità delle storie narrate da Lanthimos è di un altro genere. Lo schermo qui non è scettico, ma cinico: il sentimento cinico che accompagna questa visione del mondo non dipende dalla rinuncia a cercare un fondamento della realtà. Il cinismo è piuttosto la conseguenza di questa ricerca, che ha però l’effetto di far sentire l’inutilità, per non dire la pericolosità, di ogni fondamento. La realtà appare insensata di fronte all’assolutezza del credere: la sua insensatezza non produce però il disprezzo del mondo, ma una sorta di sospetto verso i princìpi e i fondamenti. Non a caso, nel secondo episodio, Liz sogna un mondo dove i cani sono i padroni e gli esseri umani gli animali domestici. È un’immagine escatologica come quella analizzata da Agamben in L’aperto, ma di segno rovesciato. Solo una genia – un kind – di bestie sarebbe capace di sopportare le proprie credenze a dispetto della realtà. La gentilezza evocata nel titolo è assurda perché, mentre avvicina gli esseri umani nelle singolarità delle relazioni, li allontana dal compito collettivo della sopravvivenza della specie. L’assurdità della vita, il filo conduttore dei tre episodi di Kinds of Kindness, riguarda spesso una condizione esistenziale di isolamento. Qui, però, non è in gioco il solipsismo del soggetto, ma quello della specie umana.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2022.
S. Cavell, Il mondo visto. Riflessioni sull’ontologia del cinema, CUE Press, Imola 2023.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Milano, Rizzoli 1999.
Kinds of Kindness. Regia: Yorgos Lanthimos; sceneggiatura: Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Yorgos Mavropsaridis; interpreti: Jesse Plemons, Emma Stone, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Hong Chau, Mamoudou Athie, Joe Alwyn, Hunter Schafer; produzione: Searchlight Pictures, Film4 Productions, Element Pictures, TSG Entertainment; distribuzione: Searchlight Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito, Irlanda; durata: 164’; anno: 2024.