A poca distanza dalla vittoria del Leone d’oro per Povere creature! (2023), un altro film di Lanthimos compare sugli schermi cinematografici, presentandosi con una struttura a episodi che tanto ricorda una raccolta di piccole novelle. Per la scrittura, il regista greco torna a lavorare con il suo storico sceneggiatore Efthymis Filippou. Il risultato non sembra però un reale “ritorno al passato”, come sostenuto da molti, quanto piuttosto un dialogo con quel cinema. Non proprio una rottura, ma neppure una vera evoluzione. Uno smascheramento, una voglia di svelare ciò che si nasconde dietro. Forse addirittura un sabotaggio. Come un mago che, recuperato il suo vecchio cilindro, tira fuori il coniglio mostrando a tutti i presenti il trucco, il doppiofondo. E se in questo caso il senso, il doppiofondo, fosse l’assenza di senso?

Lanthimos ha sempre avuto un forte rapporto con l’assurdo, con il nonsenso. Dimensione che nel suo cinema passato è stata legata a una serie di elementi che ne potessero, in qualche modo, giustificare o addolcire la presenza. C’è sempre una metafora, un simbolo, un sottotesto palese che rende l’assurdo apparentemente ricco di significato. In Dogtooth (2009), in cui è difficile parlare già di un effettivo nonsenso, il grottesco comportamento della famiglia è inserito in un contesto reale e quotidiano: il mondo alternativo creato dai genitori per i loro figli, con regole e legami significato-significante propri (“Cos’è uno zombi? Uno zombi è un fiorellino giallo”). In The Lobster (2015) i bizzarri personaggi e la decisione di trasformare gli individui single in animali trovano coerenza nell’immaginario fantapolitico: le solite follie di una distopica società fascista del futuro (“Ha deciso in cosa vorrà essere trasformato? In un’aragosta”). Infine, in Il sacrificio del cervo sacro (2017) gli inspiegabili eventi messi in moto dal giovane visitatore pongono l’assurdo, il nonsenso, come qualcosa di centrale e all’apparenza autonomo. Eppure, in diversi momenti, il film mostra ancora la necessità di una sua giustificazione, rifugiandosi dietro una fonte autorevole, dietro la seriosa maschera della tragedia greca: Ifigenia in Aulide di Euripide è citata in modo esplicito, didascalico, e più volte è ricordato il giusto approccio interpretativo da adottare (“Lo capisci? È metaforico. Il mio esempio è una metafora. Insomma, è simbolico”).

È un percorso che mette in luce come la dimensione del nonsenso veda una progressiva crescita nella filmografia di Lanthimos, senza riuscire tuttavia a ottenere davvero una sua autonomia. Kinds of Kindness (2024) è il primo film che sembra liberarsi del tutto da questi strati di significato, dall’esigenza di giustificare le assurdità, di attribuire un senso al nonsenso tramite metafore e simboli. Ricercando di contro una forma di puro nonsenso, attraverso un processo di estremizzazione dell’assurdo nel corso dell’opera che radicalizza da episodio a episodio l’assenza di un significato. Sia ben chiaro, ciò non significa affatto che interpretando non si possa giungere a una moltitudine di altre letture, come a un discorso sulla dipendenza e sul potere – o sulla dipendenza dal potere – rappresentati negli episodi dal lavoro nel primo, dalla famiglia nel secondo e dalla religione nel terzo. Ma che il film sembra essere libero da riferimenti giustificatori, disincentivando lo spettatore dal tentare una ricerca in profondità. Non bisogna cercare di sciogliere il gomitolo, ma di vivere l’esperienza del gomitolo.

Se Nimic (2019), ultimo film scritto da Filippou, si colloca ancora nel solco del passato, con la percezione di un’indiretta e inevitabile retorica del “nessuno di noi è insostituibile”, in Kinds of Kindness il senso delle cose diventa esattamente quello che ci si presenta davanti: un nonsenso ormai spogliato da qualsiasi tipo di protezione, di elemento che ne permetta una giustificazione. Un testo talmente libero da sottotesti metaforici o simbolici, sociopolitici o letterari, da renderlo un elogio dell’assurdo (o della superficialità). Immagini in bianco e nero possono mostrare una serie di cani alle prese con bizzarre attività: guidano un’automobile, mangiano a tavola, si impiccano con corda e sgabello. Uno stacco netto può montare una breve scena di una donna che si cimenta in un buffo balletto in favore di camera sulle note di Sweet Dreams. Così come un’altra può tagliarsi un dito per cucinarlo o morire dissanguata cercando di asportarsi il fegato, per poi apparire alle spalle del proprio cadavere, in profondità di campo, mentre abbraccia il marito. È un sogno? È un doppio? È importante saperlo?

Nel tentativo di mostrare il “doppiofondo del cilindro”, Lanthimos grazie a Filippou recupera alcuni aspetti tematici ed espressivi del passato – l’approccio cinico e un certo rigore nella costruzione dell’inquadratura – trattandoli però secondo le nuove logiche sviluppate negli ultimi anni con La favorita (2018) e in particolare con Povere creature!. Non a caso alla fotografia torna Robbie Ryan e non lo storico Thimios Bakatakis. La recitazione impassibile, straniante, quasi asettica, degli attori si scontra con una ricerca del divertimento e con una brillantezza della messa in scena che sostituisce la tipica freddezza del suo vecchio cinema, facendo di Kinds of Kindness una sorta di sua grottesca parodia. Tutto, anche il momento più violento o cinico, mantiene una sensazione di gioco, di scherzo, di brillantezza divertita. Robert che sale su una macchina e passa sopra il corpo incosciente di R.M.F., oppure l’incidente mortale che proietta un certo personaggio fuori dal parabrezza, si presentano più vicini a Bella Baxter che trasforma il marito-padrone in una capra in Povere creature!, anziché a Steven che giustizia il figlio in Il sacrificio del cervo sacro o al suicidio dell’inquilina in The Lobster.

Persino la stessa struttura episodica non è impermeabile all’approccio giocoso e al nonsenso. Ogni episodio, oltre ad avere dei titoli di coda che avvicinano l’opera a una miniserie, ripropone gli stessi attori alle prese con personaggi e interpretazioni differenti, fatta eccezione che per uno. La figura di R.M.F. è difatti l’unica a non mutare di volta in volta, sempre con l’inspiegabile, o meglio inspiegato, acronimo cucito sul taschino della camicia bianca (citazione a Fassbinder o ennesima beffa?), diventando così il collante che (non) unisce le varie storie. È un personaggio estraneo al tessuto narrativo, insensato, che semplicemente esiste al suo interno. Azioni e ruoli di R.M.F. non sembrano neppure rispondere a ciò che accade nella diegesi, ma piuttosto agli elementi paratestuali del film, rendendolo una sorta di elemento metacinematografico. Ecco allora che nel primo episodio tenta, in modo servile, di farsi uccidere perché è ciò che dice il titolo («The Death of R.M.F.») e nel secondo si ritrova a pilotare un elicottero per lo stesso motivo («R.M.F. is Flying»). Mentre nel terzo riappare cadavere, in un assurdo rapporto di continuità e discontinuità tra gli episodi, nonostante il titolo preveda ben altro («R.M.F. eats a Sandwich»). E infatti sui titoli di coda finali, in un ultimo scherzo, Lanthimos “si ricorda” dell’errore e risolve il problema con una scenetta, riassumendo tutto il nonsenso di Kinds of Kindness. Resterebbe soltanto una cosa da chiedersi: i tipi di gentilezza del titolo? Ma, giunti a questo punto, vale davvero la pena cercare una risposta?

Kinds of Kindness. Regia: Yorgos Lanthimos; sceneggiatura: Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Yorgos Mavropsaridis; interpreti: Jesse Plemons, Emma Stone, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Hong Chau, Mamoudou Athie, Joe Alwyn, Hunter Schafer; produzione: Searchlight Pictures, Film4 Productions, Element Pictures, TSG Entertainment; distribuzione: Searchlight Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito, Irlanda; durata: 164’; anno: 2024.

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