È il 1886 quando Emily Dickinson, all’età di 55 anni, muore a causa di una grave malattia. Le sue poesie, fino a quel momento, non sono riuscite a trovare spazio editoriale: su 1800 componimenti, solo 11 sono stati pubblicati mentre l’autrice era ancora in vita. La circolazione quasi interamente postuma delle sue opere è uno degli aspetti che ha contribuito ad accrescere, fino a oggi, quel velo di mistero che ha caratterizzato la vita privata e artistica della scrittrice. Madeleine Olnek, regista statunitense giunta al suo terzo lungometraggio, raccoglie l’eredità di una narrazione costruita intorno a Dickinson e la stravolge. Il suo Wild Nights with Emily, nelle sale italiane proprio in questi giorni, ci offre infatti uno sguardo inedito e coraggioso sulla vita e sull’opera di una poeta ormai leggendaria.
Il film, narrato in prima persona da Mabel Loomis Todd (Amy Seimetz), per lungo tempo amante del fratello Austin Dickinson e prima editrice delle poesie di Emily, racconta con toni leggeri e irriverenti una biografia che difficilmente sembrava poter lasciare spazio a risate e persino a forme di frivolezza. Attraverso l’utilizzo di continui flashback, la pellicola procede mettendo in scena la storia di Emily (Mary Shannon) e del suo forte legame con la migliore amica, e successivamente cognata, Susan Gilbert – poi Dickinson – (Susan Ziegler). Le due donne trascorrono tantissimo tempo in compagnia l’una dell’altra e coltivano un sentimento che, fin dall’adolescenza, è palesemente reciproco.
Emily Dickinson viene solitamente descritta come una figura solitaria, chiusa e reclusa in una dimensione di ritiro interiore. Una donna che da sempre è stata tratteggiata come priva di elementi di leggerezza e piuttosto attratta da una radicalità espressa anche dalla rinuncia al matrimonio e alla scelta di una purezza che esprimeva, come è noto, anche attraverso l’uso ossessivo di abiti bianchi. È questa, per esempio, la lettura perseguita dal film A Quiet Passion di Terence Davies, distribuito nel 2016, in cui emergono i tratti depressivi e di enorme sofferenza fisica ed emotiva della poeta. Olnek, al contrario, scegliendo di basarsi soprattutto sugli scambi epistolari tra Emily e Susan, lascia intendere l’esistenza di un’intimità e di un amore per la vita molto più intensi.
Wild Nights, quindi, si colloca in un margine tra storia e immaginazione, in cui si affacciano gli eventi ben noti della vita dell’autrice reinterpretati ed espansi senza restare imbrigliati nella lente ingannevole del patriarcato. La sceneggiatura, brillante e ricca di allusioni sessuali, contrappone continuamente due punti di vista distanti: se le parole di Mabel, portavoce della tradizione, raccontano un episodio, le immagini in realtà ci mostrano tutt’altro. Basti ad esempio la rilettura della dimensione della reclusione, aspetto che ha sempre contraddistinto la figura di Emily Dickinson: il racconto in voice over di Mabel la evidenzia come scelta ben precisa di solitudine, mentre le immagini di Emily, intenta ad uscire dalla stanza ma poi indotta subito a rientrare, sentendo provenire dal piano inferiore della casa gemiti di piacere prodotti dal fratello Austin e dall’amante, tradiscono con estrema ironia e leggerezza la tradizione dominante e aprono a nuove possibilità.
Pensiamo, ancora, alla scelta di Dickinson di non sposarsi: se da un lato può essere interpretato come un gesto di autoreclusione, un orientamento ai limiti dell’ascetismo e dell’eremitismo, un ritiro in quella «stanza tutta per sé» per dedicare la vita alla poesia, dall’altra appare invece come il naturale percorso di una donna che sceglie di non legarsi forzatamente a un uomo ma di amare, più o meno liberamente, un’altra donna. Ciò che colpisce del film è la dimensione piena di energia vitale con la quale questa possibilità viene accolta e descritta. Non c’è mai, da parte delle protagoniste, un momento di titubanza e di analisi della loro relazione, quasi non venisse mai messa in dubbio la natura (e la naturalezza) del loro amore. Non è la prima volta che vengono riportate sul grande (e piccolo) schermo nuove interpretazioni di un passato dal quale le donne sono state evidentemente rimosse perché distanti dalla narrazione eteronormata.
Tra i titoli più significativi di questo filone si inserisce indubbiamente il documentario The Female Closet diretto da Barbara Hammer nel 1998. Il film racconta la vita di tre artiste vissute in epoche diverse: la fotografa Alice Austen, la dadaista Hannah Höch e la pittrice statunitense Nicole Eisenman. Hammer riporta alla luce le vite private e misconosciute di queste donne, costrette in un closet non per vergogna ma perché imposto prima dalla Storia, poi dalle istituzioni museali che, nell’ospitare le loro opere anche in tempi recenti, hanno volutamente invisibilizzato il loro lesbismo.
Anche Ammonite (distribuito in Italia nel 2021), diretto da Francis Lee e interpretato da Kate Winslet e Saoirse Ronan, è parte di questa pratica di riattualizzazione della storia. Il film racconta la vicenda di Mary Anning, paleontologa britannica vissuta nella prima metà dell’Ottocento la quale, come altre donne del passato, non ha ricevuto in vita il giusto riconoscimento per la ricerca scientifica che negli anni ha condotto. Della sua vita privata si sa ben poco. L’unico dato certo è la scelta della paleontologa di non sposarsi, fatto nel quale Lee ravvisa la possibilità di una storia lesbica mai raccontata. Sono donne dirompenti che hanno scelto percorsi alternativi laddove il contesto storico e sociale ne aveva previsto ben altri. Non solo la loro sessualità, ma ciò che viene messa in scena è anche la difficoltà a far emergere il proprio nome di artiste o scienziate in un mondo dominato dallo sguardo patriarcale e che per lungo tempo ha costretto le donne a firmare le proprie opere con nomi maschili o, semplicemente, a dover posticipare la rivendicazione di quello spazio a loro dovuto e ingiustamente negato.
Wild Nights, inserendosi a pieno titolo nella corrente del cosiddetto lesbian period drama, film d’ambientazione storica in cui centrale è la relazione lesbica, riesce nell’impresa di restituire a Emily Dickinson la dimensione (omo)sessuale che la Storia le ha ingiustamente sottratto e restituire al pubblico un’immagine completamente nuova della poeta. Un’operazione, quest’ultima, portata avanti anche dalla serie televisiva Dickinson (2019-2021) in cui, nel corso delle tre stagioni, la vita dell’autrice viene raccontata in chiave contemporanea e con toni di irriverente leggerezza.
Il film di Olnek è ispirato da un articolo pubblicato nel 1998 sul “New York Times” nel quale si rivela che un’analisi delle lettere manoscritte di Dickinson, condotta attraverso l’uso di un software, aveva portato alla luce la cancellazione del nome “Susan”. Si tratta di una vera e propria rimozione della relazione tra le due donne che viene abilmente messa in scena da Olnek nell’ennesima contrapposizione tra il punto di vista del canone e quello di una possibile realtà: la pellicola si chiude infatti con uno split screen in cui vediamo da una parte Susan che si prende cura del corpo ormai senza vita di Emily, lo lava e lo accarezza, accommiatandosi da lei con estrema delicatezza e amore; dalla parte opposta, invece, Mabel che con la stessa cura certosina, armata di gomma, cancella il nome di Susan dalle lettere appena ritrovate giacché sarebbe una storia troppo scandalosa da far trapelare.
Un nome cancellato, tuttavia, non è di certo sufficiente a rimuovere l’esistenza di un sentimento dalla forza dirompente, svelato dalle parole che la stessa Dickinson rivolge a Susan l’11 giugno del 1852: «Se tu fossi qui – oh, se solo lo fossi, Susie mia, non avremmo assolutamente bisogno di parlare, perché i nostri occhi bisbiglierebbero per noi, e la tua mano stretta nella mia, non avremmo bisogno della parola».
Riferimenti bibliografici
E. Dickinson, Lettere. 1845-1886 [The letters of Emily Dickinson], a cura di Barbara Lanati, Feltrinelli, Milano 2018.
E. Dickinson, Poesie [1995], a cura di Massimo Bacigalupo, Mondadori, Torino 2022.
F. Fabbiani, Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica, Iacobellieditore, Roma 2019.
S. Nugara, La controstoria femminista e lesbica di Barbara Hammer, in “Il Manifesto”, marzo 2019.
A. Wilkinson, A new movie remembers the real Emily Dickinson — passionate, ambitious, and queer, in “Vox”, aprile 2018, https://www.vox.com/culture/2019/4/18/18311745/wild-nights-with-emily-interview-madeleine-olnek-molly-shannon-lesbian
Wild Nights with Emily. Regia: Madeleine Olnek; sceneggiatura: Madeleine Olnek; musica: Karl Frid, Pär Frid; interpreti: Molly Shannon, Susan Ziegler, Amy Seimetz, Brett Gelman, Jackie Monahan, Kevin Seal, Dana Melanie, Sasha Frolova, Lisa Hass Stella Chestnut, Guinevere Turner, Michael Churven, Robert McCaskill, Lauren Modiano, Al Sutton, John Peña Griswold, Allison Lane, Margot Klister; produzione: Salem Street Entertainment, UnLTD Productions, Embrem Entertainment; distribuzione: Greenwich Entertainment; origine: Stati Uniti; durata: 84′; anno: 2022.