I might be lonelier
Without the loneliness.
Emily Dickinson
Immaginare la realizzazione di un biopic sulla poetessa americana Emily Dickinson potrebbe apparire un ossimoro doloroso. La sua biografia è nota per la ristrettezza dei luoghi in cui ha vissuto – quasi solo la casa dei genitori, poi soltanto la propria stanza –, per l’assai scarsa socialità e per l’assenza di una vita matrimoniale e genitoriale, se si esclude qualche innamoramento a senso unico, vissuto intimamente nelle pieghe di un’anima tanto vitale quanto complessa.
La dimensione esistenziale di questa poetessa e donna straordinaria è invece ben altra cosa dalla biografia apparentemente arida ed è, al contrario, immensa. Per coglierla e saperle donare una tangibilità visiva ed estetica alla sua altezza è stato necessario un regista del calibro di Terence Davies. E quanto viene mostrato sullo schermo non è tanto la vita della Dickinson, povera di fatti ed eventi straordinari, ma la sua straordinaria anima. E a quest’anima tanto romantica, nel senso estetico e non emotivo, a un’anima tanto isolata quanto grandiosa, a un cuore colmo di passione, compassione, coraggio ma ugualmente timoroso, a una donna tanto eroica quanto conflittuale è dedicato il lavoro di Davies.
Gli improvvisi bagliori e le ombre abissali della poesia di Emily Dickinson sono ben noti, così come il suo uso molto personale e per certi aspetti anticipatorio e già novecentesco della punteggiatura e delle maiuscole. Ecco, la luce chiaroscurale delle sue poesie, la loro ritmica, la cadenza, le figure tanto mistiche quanto materiche quando si appigliano alla natura, agli animali, al paesaggio, le migliaia di poesie avanguardisticamente cucite a mano in quaderni segreti, tutto questo è A Quiet Passion. La vita di Emily Dickinson non poteva essere narrata se non narrando la sua poesia. E non si tratta di narrare la vita attraverso la produzione poetica, si tratta proprio di narrare la poesia in quanto vita. Anche questo potrebbe sembrare un controsenso, ma soltanto a prima vista. È infatti la scelta di come trattare il materiale poetico della Dickinson a strutturare il film, non tanto la biografia, perché ciò che di sostanziale c’è da raccontare è il magma potente della poesia.
Nel film, le poesie, tranne un unico verso, non sono mai pronunciate dalla Dickinson: la dimensione intima e privata della sua scrittura, il suo emergere notturno, il loro essere una marea poetica postuma vengono rispettati. È una voce intima a recitarli, incarnando quell’anima che è la vera protagonista del film. La poesia è un continuo fluire, ruba la scena, investe gli interni della casa così impeccabili, riempie gli abiti, la luce che penetra dalla finestre, invade il giardino, i rari incontri, le relazioni familiari. La poesia è la vita stessa, così i fotogrammi non possono fare a meno di riprodurre ciascuno un verso e, fotogramma dopo fotogramma, verso dopo verso, si racconta la vita di quest’anima cangiante e poderosa, fragilissima, immutabile nelle sue convinzioni, strenuamente esigente con il cuore, che può sopportare un dialogo con Dio solo quando non vi sia mediazione: “L’anima è soltanto mia, padre”.
Il prezzo da pagare per questa ostinata sensibilità, per questo rapporto impudico con la verità, così diretto, atroce, è un prezzo molto alto: è il prezzo della solitudine, fisica e spirituale. È la riflessione costante con una morte che è mistero, che non può essere addolcita, né spiegata, ma che viene sfidata, quasi in modo liberatorio: “Quando morirò, allora sarà la verità”.
Emerge una via, forse l’unica in grado di rendere almeno sopportabile – anche se non meno dolorosa – questa solitudine frutto di un’inarrestabile amore per la verità, orgogliosamente perseguita, ed è quella di farne una dimensione perlomeno confortevole, condivisa con la riflessione poetica. È quella di pensare che, se non esistesse, allora sarebbe il buio: I might be lonelier / Without the loneliness.
Una sceneggiatura di valore è all’altezza di dialogare con le poesie della Dickinson, riuscendo a comunicare quanta vitalità e potenza degli affetti si celi dietro una vita di parziale autoreclusione. Perché la vitalità delle emozioni è tutta nei lampi della poesia di Emily Dickinson e nel suo strenuo attaccamento sentimentale, dall’inizio alla fine della sua vita, ai componenti della sua famiglia ̶ padre, madre, fratello e sorella ̶ che sono i quattro punti cardinali di una vita in cui gli spostamenti spaziali sono quasi inesistenti, in cui l’altezza, la profondità, il viaggio sono dimensioni del pensiero e della riflessione, rese tangibili dai versi. Questo un film su Emily Dickinson dovrebbe narrare e Davies riesce a farlo.
Qualche anno fa Il giovane favoloso (2014), il biopic di Mario Martone sulla figura di Giacomo Leopardi, vertiginosamente diverso da un punto di vista estetico, si era scontrato con la stessa problematica: come portare la poesia al cinema? Come far dialogare cinema e poesia? In entrambi i casi non si tratta di narrare biografie esemplari, si tratta di narrare la poesia di anime esemplari. In quel caso la scelta di Martone fu un dialogo esplicito, nel senso di inserire le poesie nella sceneggiatura, di farle in gran parte pronunciare. Davies fa una scelta contraria, ma ugualmente riuscita.
Il valore del film di Davies è quello di afferrare la luce dell’anima della Dickinson e saperla mettere in immagini: come rendere tangibile un’anima? Questo fa la poesia, più della scrittura prosastica, oltre la scrittura saggistica o giornalistica. I versi poetici sono l’anima quando assume un aspetto tangibile e questo Davies lo ha saputo raccontare. Che si tratti di un’anima così terribilmente fragile e allo stesso tempo tanto potente da riuscire a fronteggiare l’infinito, abitare una solitudine celeste, oltre che terrena, è la poesia stessa di Emily Dickinson a svelarlo: Because I could not stop for Death / He kindly stopped for me / The Carriage held but just Ourselves / And Immortality.
Riferimenti bibliografici
E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1997.
Id., The Poems of Emily Dickinson, a cura di R.W. Franklin, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-Massachusetts 1999.