Quattro musicisti disposti sul perimetro di un palcoscenico suonano una melodia ebraica mentre sul fondo nero scorrono i titoli di testa. Nel motivo del violino di Alexei Kochetkov potrebbe riecheggiare la melodia del “Kaddish” di Ravel (che ascolteremo più tardi) e che a sua volta si riferisce alla preghiera rituale ebraica del lutto. Si apre così Why War di Amos Gitai, che è una meditazione, in forma di “film saggio”, necessaria e potente sulla domanda cruciale che riguarda le radici entro cui si innesta la follia della guerra. Un lungo, magistrale piano sequenza si inoltra per le strade di Tel Aviv, solcate dal suono delle sirene e degli allarmi fuori campo, scorre rasente un muro su cui sono affisse le foto degli ostaggi israeliani, scivola su un lungo tavolo apparecchiato con i posti che attendono la liberazione di quegli ostaggi. “Bring them home now!” recita un grande striscione sul muro. Si avverte una strana tensione che mescola attesa, vita che continua assuefatta agli allarmi, ostilità indignata contro il governo Netanyahu.

La camera di Gitai come un magnete attrae e assorbe lo “stato delle cose”, insinuandosi tra la gente, e a sua volta è risucchiata entro l’apertura di un rifugio e si inoltra nel buio di un interminabile tunnel. Una voce fuori campo legge le parole di Giuseppe Flavio, di quella “Guerra Giudaica” in cui lo storico ebreo di cittadinanza romana descrive la lotta degli ebrei, fino al fanatismo autodistruttivo dell’assedio alla fortezza di Masada, contro le legioni di Vespasiano e di Tito, lotta disperata, immolazione che sfocia nella distruzione del Tempio, simbolo della tradizione ebraica, che viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile, punto di inizio della diaspora ebraica. La camera sfocia sulle immagini sovrimpresse e mobili, come scaturite da un fondo immemore, dell’esercito romano e dei combattenti ebrei che si amalgamano in un coacervo visivo e sonoro. Quel tunnel diventa il tunnel della Storia, e l’occhio fluttuante della camera si assimila a una sorta di visione “anacronica” che fa pensare all’Angelus Novus benjaminiano, a quello sguardo di

un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. […] Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo (Benjamin 1961, p. 80). 

Gitai pare assumere questo sguardo e procedere così a una tessitura stratificatissima in cui la dialettica dei materiali intertestuali, delle immagini filmiche e soprattutto di una giustapposizione, molto rosselliniana, tra il documento storico, l’impianto brechtianamente teatrale e il conflitto interno allo slittamento tra reale e finzionale, documento e mise en scène, risultano una strada rigorosa e implicitamente politica per interrogarsi sull’aporia atroce in atto nella guerra mediorientale e nei territori. Ma il punto di partenza è anch’esso un documento storico che innerva quella domanda cruciale sul perché della guerra in riferimento alla natura e alla responsabilità dell’uomo moderno, nell’epoca in cui la tecnica prende il sopravvento, instaurandosi nel disvelamento dell’essere, come ammoniva Heidegger. Quel documento è il carteggio Einstein-Freud, le lettere che, tra il 1932 e il 1933, alla vigilia del bagno di sangue della Seconda guerra mondiale, il fondatore della fisica e quello della psicoanalisi moderne si scambiarono nell’intento di sciogliere il nodo di quell’interrogativo.

Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? (Freud, Einstein 1997).

Così comincia la lettera di Einstein cui Freud risponde mettendo in campo alcuni topoi delle sue scoperte sulla psiche umana: il nesso eros/thanatos, l’orda primitiva, il paradosso denominato “disagio della civiltà” che spinge l’uomo ad autodistruggersi quanto più cerca di assicurarsi sicurezza e protezione, il nesso e la contraddizione tra diritto e forza, che si tramuta in violenza. Ma il gesto di Gitai è anzitutto quello di inserire il carteggio all’interno di un gioco di straniamento che affida a due attori (Mathieu Amalric come Freud e Micha Lescot come Einstein), di esibirli in quanto attori, mostrarli nei camerini, nel “dietro le quinte” degli spazi teatrali che filma intersecandoli a sequenze tutte filmiche che irrompono contrappuntisticamente, o che vengono riproiettate su uno schermo che costituisce il fondale di una serie di “teatri di guerra” posti a emblema e risonanza di una sorta di “corale”, di “lamento-preghiera” che incorpora brani musicali ispirati al medesimo nodo tematico della guerra (come il War Requiem di Britten) eseguiti su quel palcoscenico con cui si apre il film e su cui si chiude.

Il film risulta allora tutto inscritto in una dinamica dialettica che spinge Gitai a riverberare i lacerti filmici in un continuo andirivieni tra passato e presente, tra attuale e virtuale, e in cui si riscontra il suo pensare il cinema e le immagini come un continuum, laddove le sovrimpressioni, il missaggio degli strati sonori, il ritorno sulle sue stesse immagini di opere precedenti che agitavano la medesima questione (Kippur, Lullaby to my father, La guerre des fils de lumière contre les fils des ténèbres, House, Promised Lands) si intessono in un costrutto prismatico. La natura profonda del suo cinema deriva anche dalla sua formazione architettonica, per cui il lavoro sugli spazi e sui materiali, il loro assemblarsi, intersecarsi, strutturarsi e destrutturarsi presiede a una cifra stilistica inconfondibile. Ma tutto ciò non si risolve in un tessuto solo formale, dal momento che sempre in Gitai, e ancor più in questo film, la forma è un gesto morale, un passo di pensiero, una postura poetico-politica.

Sembrerebbe un paradosso ma la sua scelta in Why War di non mostrare una sola immagine del conflitto, del massacro, del genocidio che sta avvenendo nei territori e di tenere il “rumore delle armi” nel flusso sonoro e nel fuori campo fa assumere più forza ed evidenza alla sua posizione da sempre schierata contro le pulsioni e i progetti di destra dello stato israeliano e a favore di una convivenza fraterna  tra i due popoli (come testimoniano film come Rabin the last day, A house in Jerusalem, Ana Arabia). La ragione risiede nella stessa domanda del film: quel “perché?” che ci lascia in silenzio a pensare, a risalire alle radici della natura umana, alle sue contraddizioni profonde e addirittura a rispecchiare nell’antica lotta degli ebrei cacciati dalla loro terra dai Romani, da un potere occidentale, il sacrosanto diritto del popolo palestinese ad esistere nelle proprie terre e a lottare per liberarsi dalla espansione dei coloni israeliani, propaggine della cosiddetta civiltà occidentale.

L’altra ragione viene esplicitata quasi subito, quando, con uno stacco netto, attraverso la porta dell’ascensore di un Hotel, ci si fa incontro Irene Jacob, e la prima cosa che dice alla camera rivolgendosi allo stesso Gitai, e indirettamente a noi spettatori, è riferita all’assedio delle immagini televisive (“Quando mi parli del perché della guerra, penso a ciò che conosco della guerra, cioè guardare delle immagini televisive”). Il lessico della guerra si può sovrapporre a quello delle forme di rappresentazione: gli scenari della guerra, le forze in campo, gli attori del conflitto, i teatri di guerra. In tal modo la trasposizione in immagine e in rappresentazione della guerra nel panorama mediatico della contemporaneità inflaziona e obnubila, anestetizza e inganna. Non mostrare la guerra ma risalire alle sue “ragioni” ambivalenti (che sfociano nella follia della pianificazione di sterminio e invasione) attraverso un “teatro della parola” e insieme l’atto creativo di una scrittura filmica diventa quindi una scelta radicale e meditata: mostrare la “resistenza” della parola come gesto di riflessione e farla rimbalzare su un esperimento quasi “installativo” di plurivoca mise en scène, assemblando i materiali e aprendo la scena ad attori, musicisti, tecnici sia israeliani che palestinesi.

Un’ulteriore ragione tutta politica per questa messa “fuori campo” delle immagini di guerra è data dalla sottolineatura di un primato dell’elemento femminile, per sua natura alieno dalla pulsione bellica, rispetto appunto alla intrinseca estraneità alle dinamiche di guerra, dal momento che la guerra è soprattutto affare di uomini. A Irene Jacob sono affidate le voci di due scrittrici come Virginia Woolf, che in Le tre ghinee scrive un pamphlet contro la guerra denunciando lo stretto legame esistente fra società patricentrica, militarismo e totalitarismo, e come Susan Sontag che in Davanti al dolore degli altri riflette proprio sul rapporto di “distorsione” tra fotografia, e quindi immagine, e scene di guerra. Eppure Why War scava nel rapporto immagine/parola/sonorità nella direzione di una forma “meditativa” rispetto alla crucialità della domanda di partenza. E nel finale riconduce tutto al plateau dell’inizio, ponendoci di fronte alla scena su cui una soprano e un coro intonano una estrema preghiera, che mentre elabora il lutto pare invocare la pace, e sullo schermo che fa da fondale si proietta il piano sequenza di Kippur in cui un alter ego dell’allora soldato Gitai si sporge dall’elicottero a guardare la terra del conflitto e dei morti, mentre il palco sprofonda a poco a poco nel buio. Adesso nel silenzio è solo il vento a soffiare sulle macerie dei teatri di guerra.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1961.
S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

Why war. Regia, sceneggiatura: Amos Gitai; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Yuval Orr; musiche: Alexey Kochetkov, Louis Sclavis, Kioomars Musayyebi; interpreti: Irène Jacob, Mathieu Amalric, Micha Lescot, Jérôme Kircher, Yaël Abecassis, Keren Morr; produzione: Agav Films, Agav Hafakot, Elefant Films; origine: Francia, Svizzera; durata: 87’; anno: 2024.

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