Rileggendo oggi il grande romanzo di Don De Lillo, White Noise, da cui è tratto il film di Noah Baumbach, emergono non solo gli elementi di una radiografia del presente americano di allora – anni ottanta – ma anche una profonda anticipazione di quello che segna il nostro presente. «We need an occasional catastrophe to break up the incessant bombardment of information […] The flow is costant. Words, pictures, numbers, facts, graphics, statics, specks, waves, particles, motes. Only a catastrophe gets our attention. We want them, we need them, we depend on them» (De Lillo 1986, pp. 65-66).

Queste parole del libro – riprese letteralmente dal film – mostrano oggi un’attualità aggiornata e più inquietante. Non è più in gioco la catastrofe come interruzione di un flusso generalizzato di informazioni. Perché la catastrofe è il flusso, che diventa inarrestabile amplificatore quando è attivato da un trauma nella realtà stessa (dalle Torre Gemelli alla Pandemia). Tra flusso e trauma si crea una zona d’indeterminazione: diventano indiscernibili.

La realtà del trauma, dell’incidente, diventa una forma della simulazione stessa. Così accade quando durante la dispersione della nube tossica (che occupa la parte centrale del romanzo e del film), Jack Gladney, professore di studi hitleriani in un college americano, sposato e con quattro figli avuti da diverse mogli, obietta al ragazzo che gli sta di fronte, che sta gestendo la situazione d’emergenza: «But this evacuation isn’t simulated. It’s real», «We know that. But we thought we could use it as a model» (ivi, p. 134).

Il precipitato di tutto questo è nella paura della morte come unico vero modellatore della vita individuale, familiare e sociale. Questa paura diventa il grande collante di sentimenti, comportamenti e percezioni. Perché è una paura plastica, assume diverse forme e dà vita a differenti risposte: catastrofe ambientale, dipendenza farmacologica, occultismo, sospettosità e complottismo infiniti. È quello che dice a Jack l’amico e collega Murray: «This is the nature of modern death.  It has a life independent of us. It is growing in prestige and dimension. […] We’ve never been so close to it, so familiar with its habits and attitudes. We know it intimately. But it continues to grow» (ivi, p. 144).

Ma soprattutto la paura della morte e il suo tentativo di esorcizzarla genera – come sottolinea ancora Murray – il desiderio di assegnarla la morte. Perché la morte altrui allontana la nostra. Il punto è: quale posizione si occupa, quella di colui che uccide o di colui che muore? Murray, a cui sono affidate le verità più importanti, dice a Jack: «There are two kinds of people in the world. Killers and diers. Most of us are diers. We don’t have the disposition, the rage or whatever it takes to be a killer. […] But think what it’s like to be a killer. Think how exacting it is. If he dies, you cannot. To kill him is a to gain life-credit» (ivi, p. 277).

Il fatto stesso che Jack si occupi di nazismo, cioè dell’orrore più grande e del più profondo culto della morte, è per allontanare da sé la sua propria morte: «Hitler is larger than death – gli dice Murray – You thought he would protect you» (ivi, p. 272). E la famiglia, che dovrebbe costituire l’istituzione più immunizzante rispetto a tali paure, ne è all’opposto il custode migliore e l’alimentatore più potente. Nel film si dispiegano efficacemente paure e nevrosi che uniscono e dividono marito, moglie e i quattro figli. Ma se tali paure divenute coscienti – e la paura stessa è una forma della coscienza – le ansie dominano, alterano i soggetti, che cercano strade e percorsi di “sedazione” (il Dylar, psicofarmaco clandestino dietro cui la moglie Babette si smarrisce), o di “imbroglio” (Jack che nasconde ai medici la verità) per poterle sopportare.

Ma oggi? Che aspetto prendono tutte quelle paure, soprattutto quella della morte? Sono diventate inconsce, rimosse, trasformate nel flusso del controllo e della sicurezza, sanitaria e non. Una corrente continua di check up senza interruzione, di dispositivi preventivi ed assicurativi, affinché né la morte né la sua paura possano emergere. Un processo infinito e totalitario di prevenzione ed immunizzazione che esorcizza la morte spegnendo la vita.

Di questo ne è consapevole Baumbach, che nel film trasforma (ma non in maniera felice) il ritmo lento e il tono sospeso tra il drammatico e il latentemente apocalittico del romanzo di De Lillo in una sorta di flusso continuo dove il dramma si declina sempre più con il commedico ed il grottesco, come emerge chiaramente nel finale del film.

In un mondo senza più fuori, calati in un flusso senza rilievi, dove le paure stesse vengono occultate dal dominio di dispositivi securitari, questo mondo si sottrae al registro stesso del drammatico e del catastrofico, per iscriversi in quello dell’ironico e del grottesco, come nella ritualità celebrativa degli acquisti al supermercato che, in forma coreografica, chiude il film.

Riferimenti bibliografici
Don De Lillo, White Noise, Penguin, London 1986.

White Noise. Regia: Noah Baumbach; sceneggiatura: Noah Baumbach (dall’omonimo romanzo di Don De Lillo); interpreti: Adam Driver, Greta Gerwig, Raffey Cassidy, André Benjamin, Don Cheadle; produzione: Netflix; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 136′; anno: 2022.

Tags     America, De Lillo, paura, trauma
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