La convivenza di direttrici diverse e spesso in aperta contrapposizione costituisce uno degli aspetti più affascinanti e distintivi dell’operazione culturale svolta da Sergio Leone attraverso il suo cinema, in particolare con la sua produzione western. Questo approccio ha permesso al regista romano di confrontarsi con modelli di pensiero e tradizioni filosofiche di grande corposità, mantenendo comunque un forte legame con il contesto storico, sociale e politico in cui le sue opere si inseriscono.
Un rapporto piuttosto diretto riguarda anzitutto alcuni temi portanti del pensiero gramsciano, fattore che segnala una vicinanza più stretta di quanto si immagini tra la produzione leoniana e alcune opere coeve collocate sul fronte di un cinema dalla marcata impronta politica e autoriale. È gramsciana certamente la connotazione assunta dall’atteggiamento del regista laddove la sua produzione filmica sembra voler sanare l’assenza di un’identità di concezione del mondo tra intellettuali-artisti e popolo. L’affermazione di Gramsci secondo cui in Italia «gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla “nazione” e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso» (Gramsci 2000) sembra riecheggiare esplicitamente nel celebre passaggio di Giù la testa (1971) in cui il peone Juan Miranda (Rod Steiger), in una discussione con il rivoluzionario John Mallory (James Coburn), se la prende con l’abissale distanza stabilita da “quelli che leggono i libri” nei confronti di “quelli che non leggono i libri”, destinati a fare da carne da macello quando c’è da compiere una rivoluzione…
Ma è soprattutto gramsciana l’intenzione nel cinema di Leone di sovvertire un certo “discorso egemonico” facendo leva su quella superficialità (almeno apparente) della cultura popolare che può essere interpretata come «una deliberata strategia politica» nella sua configurazione di territorio a partire dal quale promuovere un’azione di disgregazione della «cultura omogenea», facendo della stessa cultura popolare una piattaforma politica (McRobbie 1994). È così che soprattutto i film della “trilogia del dollaro” tentano di dare vita a un linguaggio critico che, sfruttando i codici del cinema popolare, sollecitano discorsi complessi di natura politica, etnica e di genere.
In aggiunta a tutto ciò è importante sottolineare come nel corpus cinematografico di Sergio Leone siano presenti riferimenti a un altro elemento centrale del pensiero di Gramsci quale la “questione meridionale”. Una dimensione riscontrabile anzitutto nell’ambientazione dei suoi primi western (si veda soprattutto il villaggio di San Miguel di Per un pugno di dollari, 1964) e connessa all’idea di uno spazio di «evacuazione del progresso» (Fisher 2011) nel quale dominano un fatalismo e una rassegnazione senz’altro più propri di una cultura mediterranea che di una way of life americana. Anche la rappresentazione di alcuni personaggi di origine proletaria rivela numerosi legami con aspetti del pensiero gramsciano riguardanti la “questione meridionale”, come accade per i peones messi in scena, sulla scorta di altre figure protagoniste del western italiano di ambientazione messicana, in film come Il buono, il brutto, il cattivo (1966) e nel già citato Giù la testa; “dannati della terra” fanoniani, ma anche nuovi “servi della gleba” incapaci di pensare se stessi come membri di una collettività e di «svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale» (Gramsci 1987). Perfette incarnazioni, insomma, del contadino dell’Italia meridionale di cui parla Gramsci, «vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale […] incapace di porsi un fine generale d’azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica», motivo per cui la sua azione di opposizione al “sistema” non può che sfociare in forme di «terrorismo elementare» (Gramsci 2011).
Tutto il cinema leoniano rappresenta del resto un contesto in cui viene costantemente messo alla prova quel tema della legittimità della violenza che alla fine degli anni ’60 riceve particolare attenzione a causa delle incertezze politiche e sociali diffuse a livello globale. In una situazione simile un solo afflato sembra riuscire a scalfire la patina di nichilismo che copre ogni cosa, elevandosi aldilà della stessa finitezza del mondo: la libertà. Antieroe su tutti i fronti, l’”uomo senza nome” leoniano, introdotto in Per un pugno di dollari attraverso il pistolero interpretato da Clint Eastwood, riconquista la statura dell’icona nel momento in cui diventa veicolo di quel libertarismo che costituisce la sua vera arma di sovversione del Sistema, irrompendo come «modello segreto di tutto un sommovimento culturale e politico che stava investendo l’Europa e l’Occidente» (Lanna 2011) nella fase pre e postsessantottina.
Ed ecco così affacciarsi l’altro grande modello di pensiero, ma anche di pratica politica, cui si associano solitamente il cinema di Sergio Leone e i protagonisti che lo abitano: l’anarchia. Più che all’archetipo dell’anarchico in senso stretto, l’eroe leoniano sembra avvicinarsi tuttavia a quello dell’Anarca, figura teorizzata nel romanzo Eumeswil, capitolo conclusivo di una trilogia narrativo-simbolica che esplora l’affermazione della modernità, preceduta da Sulle scogliere di marmo e Heliopolis, tutte opere a firma di Ernst Jünger, filosofo e scrittore simbolo di un orizzonte culturale libertario e immaginifico, ma anche figura estremamente controversa nel panorama ideologico del Novecento. Ma cosa lega l’Anarca di Jünger alle figure chiave del cinema di Leone? Sicuramente il ribellismo individuale contrapposto a qualsiasi forma di partigianeria collettiva e, di conseguenza, la capacità (o almeno, in Leone, il tentativo) di vivere il proprio innato senso di libertà e individualità senza appoggiarsi a nessuna “stampella ideologica”. Il personaggio-tipo del cinema leoniano condivide insomma con quello jüngeriano il ribaltamento della canonica condizione (propria soprattutto del cinema western classico) dell’uomo che è bandito dalla società a uomo che ha bandito la società da se stesso.
Un ulteriore elemento del pensiero di Jünger che sembra toccare alcuni aspetti della poetica di Leone è il discorso sulla tecnica. Il filosofo tedesco considera quest’ultima in termini apocalittici, vedendola come un mostro onnipotente che ha dato vita a una società globalizzata e impersonale in cui l’uomo – solo apparentemente libero – finisce per essere dominato e oppresso dalle stesse istituzioni che dovrebbero rappresentarlo, anch’esse neutre e impersonali come la tecnica. A quest’ultima è affidato dal regista un ruolo a tratti funesto, come dimostra l’allegorica locomotiva, vero e proprio simbolo della «forza inesorabile del capitalismo che avanza come un rullo compressore» (Thoret 2007) in C’era una volta il West (1968) e dispositivo di autodistruzione nelle mani del personaggio di Villega (Romolo Valli) in Giù la testa. La tecnica può diventare anche strumento bellico di violenza impersonale e sopraffazione, come dimostrano i mezzi blindati, quasi robotici, che si fondono con il sadico colonnello nazistoide Günther Reza in Giù la testa, richiamando la sofisticata e moderna tecnologia bellica che, già a partire dalla Prima guerra mondiale, aveva progressivamente sostituito la figura del combattente diventando, secondo Jünger, la protagonista incontrastata.
Quanto detto fin qui conferma come la prospettiva abbracciata da Leone con la sua produzione western appaia, a tutti gli effetti, non riconciliata in quanto fondata sulla compresenza di componenti, anche ideologiche, posizionate in una condizione di costante tensione dialettica. Ragione che spiega in fondo perché sia proprio il western il principale punto di riferimento cui il cineasta àncora la propria visione del mondo e del cinema. Tale genere è infatti, già nella sua versione originale, la sede di un elaborato sistema di idee contrapposte in cui la libertà individuale si colloca in opposizione alle restrizioni imposte dalla comunità, la purezza potenzialmente “selvaggia” della natura alla corruzione della cultura, e i valori del West in antitesi a quelli dell’Est. Tutto ciò nel quadro di quella più generale e canonica tensione tra i concetti di wilderness e civilization che rappresenta una delle dinamiche fondative del “cinema americano per eccellenza” (Bazin 1953).
Riferimenti bibliografici
A. Bazin in J.-L. Rieupeyrout, Le western: ou, Le cinéma américain par excellence, Éditions du Cerf, Paris 1953.
A. Fisher, Radical Frontiers in the Spaghetti Western. Politics, Violence and Popular Italian Cinema, I.B. Tauris, London-New York 2011.
A. Gramsci, L’Ordine nuovo: 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A. Santucci, Einaudi, Torino 1987.
Id., Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 2000.
Id., La questione meridionale, REA Edizioni, L’Aquila 2011.
L. Lanna, Il fascista libertario, Sperling & Kupfer, Milano 2011.
A. McRobbie, Postmodernism and Popular Culture, Routledge, New York 1994.
J.-B. Thoret, Sergio Leone, Cahiers du cinéma éditions, Paris 2007.