Christopher Frayling ricorda che quando C’era una volta il West uscì in Francia gli studenti del “maggio” accorsero in massa a vederlo (Frayling 2002). Pur essendo trascorso più di un anno dagli eventi che avevano inaugurato il ’68 francese (oltralpe il film di Sergio Leone apparve in sala il 27 agosto del 1969, dopo essere uscito in Italia il 21 dicembre dell’anno precedente), gli “ardori” della Contestazione erano infatti ancora vivi e l’opera del regista romano, anche al di là delle sue intenzioni, sembrava ben interpretarli.
Ciò che probabilmente colpì quei giovani barricaderi fu, ancora secondo Frayling, «la “decostruzione” […] dei film di Hollywood», motivo che avrebbe reso la quinta opera di Leone, agli occhi dello stesso studioso inglese, «il primo film realmente postmoderno» (Frayling 2002). Lo stesso punto di vista sarebbe stato espresso anche da John Fawell nel suo volume su C’era una volta il West, nel quale i tratti classici dell’opera postmoderna vengono rintracciati laddove il realismo e l’approfondimento psicologico lasciano il posto a figure archetipiche autoreferenziali e ad abbondanti rimandi intertestuali (Fawell 2005).
Di sicuro c’è che, dopo la “trilogia del dollaro”, C’era una volta il West, annunciando l’apertura della nuova “trilogia del tempo”, rappresenta l’occasione per Leone di consegnare una volta per tutte il western alla fiaba (da cui il “C’era una volta” del titolo) non senza però essersi prima cimentato con la sfida più difficile e definitiva: affrontare tale canonico genere sul suo terreno d’elezione. Di qui la scelta, resa possibile dall’elevato budget ora a disposizione, di contestualizzare la sua opera in un preciso territorio (l’Arizona) e non più in una generica “terra di nessuno”, girando dunque nei luoghi liturgici di John Ford (primo fra tutti la Monument Valley di opere chiave come Ombre rosse, Sfida infernale o Sentieri selvaggi).
Ora dunque l’attenzione del regista romano si appunta sulla saga dell’avanzata nelle praterie dell’Ovest del progresso incarnato dalla ferrovia e quindi sulla corsa verso la “seconda frontiera” americana dell’era industriale, che segue l’epoca della “conquista del West”, dell’advancing frontier dei primi pionieri. Si tratta, in altri termini, di quella canonica transizione dalla natura selvaggia alla modernità che trova la sua più emblematica esplicitazione nell’incipit del film dove, in una dechirichiana atmosfera rarefatta, Leone gioca con la dialettica interno/esterno consentitagli dall’uso delle porte e delle finestre della stazioncina dell’immaginaria Flagstone: un evidente omaggio nuovamente a Ford, regista che costruisce in modo sempre uguale «una delle sue inquadrature più ideologiche, l’apertura e la chiusura delle porte di casa», momento di passaggio, appunto, tra la wilderness e la civilization e «dunque punto di snodo della dialettica fondatrice del suo cinema» (Toffetti 2000).
Anche la scelta di impiegare un attore feticcio di Ford come Henry Fonda va nella medesima direzione di una continua tensione dialettica, tra omaggio e scarto, nei confronti della tradizione. Il Frank nerovestito interpretato dall’attore americano, infatti, è l’incarnazione di una nazione fatalmente al tramonto che cede il passo a una nuova, nascente America, quella di Jill McBain (Claudia Cardinale), prima vera presenza femminile del cinema di Leone.
È questa figura a farsi simbolo in C’era una volta il West di una vera e propria rivoluzione che coincide con l’inizio del matriarcato e la fine dell’universo maschile e maschilista rappresentato dal Far West. La sua forza sembra tutta condensarsi nell’inquadratura in plongée che, anticipando quella nella fumeria d’oppio su Noodles/De Niro in C’era una volta in America (1984), la ritrae attraverso i pizzi del baldacchino distesa sul letto «come una regina dallo sguardo impaurito», e soprattutto nelle immagini finali del film in cui, «con la solennità di una vestale» (De Fornari 1997), Jill distribuisce l’acqua agli operai impegnati a costruire la ferrovia.
È in questa novità macroscopica e dirompente che probabilmente i giovani sessantottini rintracciarono all’epoca la specifica “politicità” del film e dunque – malgrado l’atteggiamento disilluso e il credo anarchico di Leone – la sua organicità allo spirito del tempo. Non va dimenticato d’altra parte che la figura di Jill viene partorita proprio da due di quei giovani engagé – l’allora critico militante di “Paese Sera” Dario Argento e il già affermato regista Bernardo Bertolucci – chiamati da Leone a partecipare alla scrittura del soggetto del film.
Dopo la coppia della commedia all’italiana Age-Scarpelli, coautrice della sceneggiatura de Il buono, il brutto, il cattivo (1966), i due nuovi collaboratori sono anzitutto cinefili doc che uniscono la passione per il cinema a quella per la politica. È in particolare Bertolucci a scoprire che il suo marxismo si accorda con la malinconia e la cinefilia del regista romano, con il quale il giovane trova un punto di contatto proprio nel comune amore per il genere western. Ed ecco allora il ruolo cruciale di Jill, creato pensando alla Vienna di Joan Crawford in Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954), modello ideale per la costruzione di una figura femminile – figlia probabilmente anche degli studi storici sulle donne pioniere emergenti proprio alla fine degli anni sessanta – decisiva per il dissolvimento di tutta una serie di mitologie tradizionali.
La sensazione del tramonto di un’epoca è così all’origine di quella pervasiva atmosfera nostalgica in cui fatalmente si caleranno, da questo momento in poi, gli ultimi film di Sergio Leone. Il richiamo al passato che marca C’era una volta il West convive in questa prospettiva con la proiezione verso un futuro guardato sempre di più con scetticismo e disinganno, secondo quel tipico quanto contraddittorio sentimento, proprio del “carattere italiano”, che si accentua nel nostro paese nel momento in cui, alla fine degli anni ’60, cominciano ad affiorare le scorie lasciate sul campo dal boom economico.
L’affascinante modernità configurata nel film dalla meravigliosa macchina a vapore rappresentata dalla locomotiva e dalla suadente Donna-Madre-Vita-Futuro incarnata da Jill, così, non fa altro che spingere Leone a rifugiarsi in un universo avvertito come irrimediabilmente perduto con l’arrivo di quella medesima modernizzazione e delle sue istituzioni fondamentali.
Di qui, se si vuole, quella “condizione postmoderna” in cui lo slancio progressista verso il futuro, anche in termini di linguaggio cinematografico, si innesta su una tendenza regressiva e a suo modo reazionaria rivolta a un passato vagheggiato come mitico o favolesco, quello appunto del c’era una volta inteso come “eterno ritorno” «al mondo primigenio e mnemonico fatto di innocenza e di ludi che ognuno di noi sarebbe in grado di raccontare/ricordare» (Donati 2004).
Non a caso proprio in questi termini Sergio Leone si esprimeva quando, all’epoca dell’uscita di C’era una volta in America, parlava del suo film del 1968 a Diego Gabutti: «C’era una volta il West è precisamente il mondo nel quale a noi due piacerebbe vivere. Una terra di nessuno dove non si è ancora grandi e non si è più bambini» (Leone in Gabutti 1984).
Riferimenti bibliografici
O. De Fornari, Tutti i film di Sergio Leone, Ubulibri, Milano 1997.
R. Donati, Sergio Leone. America e nostalgia, Falsopiano, Alessandria 2004.
J. Fawell, The Arts of Sergio Leone’s Once Upon a Time in the West: A Critical Appreciation, McFarland & Company Inc., Jefferson/London 2005.
C. Frayling, Sergio Leone. Danzando con la morte, Il Castoro, Milano 2002.
D. Gabutti, C’era una volta in America. Dollari, cowboy, whisky, donne, oppio, gangster e pistole… Un’avventura al saloon con Sergio Leone, Rizzoli, Milano 1984.
S. Toffetti, Il figlio di Roberto, in A. Prudenzi, S. Toffetti, a cura di, Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone, “Quaderni della Cineteca”, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2000.