Nella filmografia di Spielberg, gli accenni di musical – dai balletti in louma crane di 1941 alle danze in CGI di Ready Player One passando per E.T. e l’incipit coleporteriano di Indiana Jones e il tempio maledetto – sono sempre stati sintomo di una nostalgia che ha trovato un altro versante espressivo nella pratica postmoderna del remake diretto (Always da Joe il pilota) o indiretto (Jurassic Park clone di King Kong). West Side Story sembrerebbe voler prendere due piccioncini con una fava: da un lato entrare ufficialmente nel genere musical (mancante all’appello nonostante il carattere eminentemente “coreografico” della regìa spielberghiana), dall’altro restare nell’alveo di quegli “eterni anni Sessanta” che Fredric Jameson vedeva come un tipico tema postmodernista.
A quale originale fa riferimento un remake? La guerra dei mondi di Spielberg (2005, lo stesso anno di Munich e non a caso, trattandosi del clima post-11 settembre) sarebbe un adattamento del romanzo di Herbert George Wells (in verità un seriale pubblicato a puntate nel 1897 sul Pearson’s Magazine) se non si desse la versione cinematografica di Byron Haskin (premio Oscar 1953 per gli effetti speciali); ma è chiaro che il confronto che Spielberg sta cercando è piuttosto con la mitica versione radiofonica del 1938 firmata da Orson Welles (ne fa fede la cura degli effetti sonori, premiati agli Oscar). Analogamente, West Side Story si presenta come un omaggio per i 60 anni del film di Robert Wise (dieci Oscar su undici nomination, restò fuori solo la sceneggiatura firmata dall’ebreo newyorkese Ernest Lehman, che non aveva vinto neppure con Intrigo internazionale) piuttosto che come versione cinematografica dell’opera teatrale – libretto dell’ebreo newyorkese (blacklisted) Arthur Laurents, una carriera di sceneggiatore che va da Nodo alla gola a Come eravamo; testi delle canzoni di Stephen Sondheim; musiche di Leonard Bernstein – che nel 1957 aveva debuttato a Broadway (con la regia del coreografo newyorkese Jerome Robbins) mettendo in scena proprio il quartiere che contiene Broadway (l’Upper West Side si chiama così perché è nella parte alta di Manhattan e a sinistra di Central Park).
Ma perché Spielberg dovrebbe omaggiare questo Robert Wise (1914-2005) che iniziò come montatore di Orson Welles (Quarto potere, L’orgoglio degli Amberson) e finì col portare sul grande schermo il popolare seriale televisivo Star Trek? Non tutti quelli che hanno visto Ultimatum alla Terra (l’originale del 1951, non il remake del 2008) – e che volentieri citano la frase dell’alieno Klaatu “Klaatu barada nikto”, più famosa di “E.T. home phone” – ricordano il nome del regista, che pure anticipa molte soluzioni “spielberghiane” (si riguardi l’inquadratura in cui il profilo di Klaatu/Carpenter è messo in rima visiva con il profilo statuario di Lincoln). Però i manuali di cineturismo citano con ammirazione il caso incredibile del musical Tutti insieme appassionatamente (premio Oscar 1966) che dopo oltre mezzo secolo porta frotte di turisti (americani, giapponesi e non solo) nella mozartiana Salisburgo. Wise sarebbe dunque un esempio della perfetta corrispondenza fra successo popolare e qualità artistica, fra cultura vernacolare ed empireo della critica?
La canonizzazione – ce lo ha spiegato Harold Bloom – non è nel potere dei critici bensì in quello degli artisti, che la usano come forma di auto-canonizzazione. Vale per la letteratura (Dante che sceglie come guida Virgilio, l’Ulisse di Joyce che è modellato sull’Odissea) e vale per il cinema, soprattutto quello moderno e contemporaneo: Coppola fa Apocalypse Now per sostituirsi a Welles nel compimento del progetto Cuore di tenebra; per restare ai giorni nostri, il felliniano Sorrentino in È stata la mano di Dio inserisce come personaggio (interpretato dall’attore Ciro Capano) il regista Antonio Capuano, suo mentore ai tempi di Polvere di Napoli. Il remake di West Side Story è una forma di canonizzazione: il carattere di sovradeterminazione simbolica dell’operazione – l’ebreo-gentile Spielberg che rimonumentalizza il monumento simbolico degli ebreo-gentili Bernstein, Laurents e Sondheim – non sfuggirebbe all’occhio dell’ebreo-gentile Edgar Morin, che non a caso cita Spielberg (confondendolo con Lucas) nel saggio Il mondo moderno e la questione ebraica. Un documento sugli scontri razziali di New York è un monumento contro tutti i razzismi, una preghiera per i diritti di tutte le minoranze: gli omosessuali (allusi nel personaggio di Chino) e i queer (il personaggio di Scarafaggio), i comunisti, gli ebrei, i negri (Rita Moreno che inizia una frase con le parole “Life matters” echeggia il movimento Black Lives Matter). Ma se l’estremo della canonizzazione è un’operazione di ricalco, come il Don Chisciotte di Pierre Menard o lo Psycho di Gus Van Sant, le altre varianti si aprono alla comparazione, madre di tutti i giudizi critici. Guerrieri, vogliamo giocare alla guerra?
La versione Wise (WSS61) parte dall’alto, con una panoramica aerea della Grande Mela che – andando dai quartieri ricchi alle zone proletarie per finire su un campo da gioco perimetrato come un ring (il “controllo del territorio” si riduce a un fazzoletto di terra) – permette di vivere la story come un’opera site-specific, insufflando un po’ di neorealismo modello La città nuda (fotolibro di Weegee prima che film di Dassin) nelle scenografie stilizzate del musical. La versione Spielberg (WSS21) parte dal basso, dal ground zero di macerie urbane che si rivelano i resti degli slums rasi al suolo per lasciar posto al Lincoln Center for the Performing Arts voluto da Rockefeller (che comprende la David Geffen Hall sede di quella New York Philharmonic diretta da Leonard Bernstein nel periodo 1958/69): la gentrification è già in atto, West Side Story ne fa parte in quanto fotografia di un mondo che scompare (come le immagini di Atget per Parigi, o di Curtis per i pellerossa) e persino i poliziotti sono coscienti del fatto che la pretesa lotta per il controllo avviene su un territorio che è proprietà dei grandi gruppi immobiliari tipo Elizabeth Trump & Son; queste bande che pretendono di arrivare dal cielo (i Jets, gli aerei) o dall’oceano (gli Sharks, gli squali) sono solo immigrati col mito dell’America (mito più femminile che maschile: sono le ragazze a cantare “Skyscrapers bloom in America / Cadillacs zoom in America / industry boom in America”) destinati a farsi guerra fra poveri.
Il colpo di fulmine fra Maria e Tony al ballo è risolto diversamente, ma sempre cercando di superare il problema della prossemica teatrale: Wise opta per un effetto sfocatura, che cancella il resto dei pezzi per lasciare solo il re e la regina visibili ai lati opposti della scacchiera; Spielberg immobilizza i due come fissandoli su una foto, primi piani statici (estatici) su uno sfondo/contesto in movimento. Quanto alla scena del matrimonio simbolico, che in WSS61 si svolge in sartoria (luogo profano che viene sacralizzato dall’apparizione subliminale di una croce come elemento dell’interior design), la sceneggiatura di WSS21 (firmata da Tony Kushner, quello di Munich e Lincoln) sposta l’intero evento all’interno di una chiesa: eccesso di didascalismo, come fare di Bernardo un pugile (per ribadire l’idea del ring) o come riempire di specchi la scena in cui Maria canta I feel pretty.
La questione portoricana, non riducibile a una metafora della jewishness, poneva un problema specifico di casting politically correct: in WSS61 Maria era la californiana di origini ucraine Natalie Wood, candidata all’Oscar 1956 per Gioventù bruciata; Bernardo era George Chakiris, poi diventato l’italianissimo Bube nel film di Comencini del ’63; l’unica portoricana era Rita Moreno, che viene recuperata da Spielberg nella duplice funzione di anello di congiunzione fra WSS61 e WSS21 e di rappresentante della comunità ispanica di Hollywood (premio Hispanic Heritage 2010 alla carriera), il che dà uno spessore particolare all’interpretazione del brano Somewhere. Siccome Rachel Zegler (Maria) e Ariana DeBose (Anita) non possono rappresentare l’identità nazionale, il regista decide (o è il suo consulente musicale John Williams?) d’inserire la versione Sharks della Borinqueña, l’inno di Porto Rico, utilizzando non il testo edulcorato adottato dal governo bensì la versione rivoluzionaria originale risalente al 1868: “Nosotros queremos la libertad / y nuestros machetes nos la darán”. E anche il postcolonialismo è servito.
Si potrebbe continuare fino ai titoli di coda, che Spielberg co-firma per far sentire la necessità di confrontarsi con la grafica di Saul Bass che già presagiva i graffiti di New York. Ma forse anche il metodo comparativo è una guerra fra bande, una volontà di gerarchia che si spaccia per confronto ludico. Forse bisogna decidere che i due West Side Story possono stare tranquillamente a fianco alla pari, come torri gemelle nello skyline canonico del musical hollywoodiano.
Riferimenti bibliografici
E. Acevedo-Muñoz, West Side Story as cinema: the making and impact of an american masterpiece, University Press of Kansas, Lawrence 2013.
R. Barrios, West Side Story: the Jets, the Sharks and the making of a classic, Running Press, New York 2020.
West Side Story. Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tony Kushner dal musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn, Sarah Broshar; scenografia: Adam Stockhausen; costumi: Paul Tazewell; musiche: Leonard Bernstein (adattate e arrangiate da David Newman); interpreti: Ansel Elgort, Rachel Zegler, Ariana DeBose, David Alvarez, Mike Faist, Josh Andrés Rivera, Ana Isabelle, Corey Stoll, Brian d’Arcy James, Rita Moreno; produzione: Amblin Entertainment, 20th Century Studios; origine: Usa; durata: 104′; anno: 2021.