C’è un momento nel film dove si misura la verità di ciò che sta accadendo. Il diciasettenne Fabietto, chiuso nella sua stanza, sentendo la madre in preda ad una crisi di rabbia e disperazione perché il marito continua a frequentare l’amante, viene colpito da una crisi convulsiva. Il fratello lo trattiene, ma la verità del corpo rivela il malessere di un adolescente per cui l’illusione dell’amore genitoriale frana. Quei genitori ideali, amorevoli tra loro (si richiamano con un fischio seducente) e con i figli, non sono poi così tanto ideali. Sono come tutti, incerti, incompiuti, spiritosi (la donna ama fare gli scherzi) e dunque umani.
È stata la mano di Dio, il film personale e quasi autobiografico di Paolo Sorrentino, è un racconto di formazione, dove quest’ultima sembra avvenire in controtempo rispetto alla storia antropologica della città. Siamo negli anni ottanta, in una Napoli sospesa tra folclore, piccole illegalità, splendore e opportunità, nella quale si muove una galleria di personaggi e maschere grottesche che animano tutta la prima parte del film, dove il “fellinismo” di Sorrentino viene a declinarsi, in un misto di dolore e sorriso, nel modo più sentito e partecipato.
Tra i personaggi emerge la giovane e bella zia Patrizia (Luisa Ranieri), con cui si apre il film. Il suo racconto di incontri con San Gennaro e “munacielli” vari nasconde il dolore di una donna che non potendo avere figli sembra concedersi a comportamenti sconsiderati (“puttana” l’apostrofa l’ottuso marito), come anche quello di prendere il sole in barca nuda davanti a tutti i parenti. Il dolore di questa zia, che finirà in ospedale psichiatrico, per i nipoti ammirati è sovrastato dalla sua esuberante bellezza (scherzano infatti se è meglio avere una notte d’amore con lei o Maradona al Napoli).
Profondamente umani, divertiti e dolenti, sono anche i due genitori di Fabietto, il padre Saverio (Toni Servillo) e la madre Maria (Teresa Saponangelo), percepiti dal ragazzo sempre in una sorta di luce irreale, una teca protetta e illusoria, sia nel privato della casa che negli incontri con la comunità condominiale o con quella dei parenti.
Una stessa proiezione immaginaria animerà l’attesa dell’agognato approdo a Napoli del santo laico, Maradona, il cui arrivo segnerà la vita di tutta la città e anche quella di Fabietto. Quest’ultimo resterà infatti in città per andare allo stadio, salvandosi così dalla morte per monossido di carbonio che occorrerà ai genitori nella nuova casa di montagna in Abruzzo. L’arrivo di Maradona e la morte dei genitori rappresentano due eventi coevi che vanno in direzioni opposte, il primo verso l’acme dell’illusione e del sogno, il secondo verso il loro tracollo.
A partire da questo trauma, Fabietto entrerà nel momento di formazione vero e proprio della seconda parte del film, quando il vezzeggiativo del nome andrà tolto, e il ragazzo dovrà farsi carico del suo proprio futuro. Questo non prima di esser passato per un triplice momento di formazione: l’anziana nobildonna che lo inizia al sesso per “iniziarlo alla vita” dopo il trauma, il contrabbandiere che lo porta rischiosamente ed avventurosamente con sé in gite notturne a Capri, e l’anziano regista, Antonio Capuano, che con parole aspre lo invita a non avere paura e a trovare il coraggio giusto per restare a Napoli, dove “c’è tanto da raccontare”. Non sarà così, nell’ultima immagine vediamo Fabio giungere a Roma per fare cinema e lasciare Napoli.
Formarsi significa lasciare comunque il posto in cui si è nati per poi magari ritornarvi a fare i conti con il proprio passato, dolori e gioie incluse. E questo sembra avere ancora più senso quando la città in cui si è nati e cresciuti è assorbita totalmente dal contro-movimento illusorio del sogno di Maradona (“Se non viene mi suicido” dice lo zio, interpretato da Carpentieri). In quel sogno la città sembra voler rimanere come in una bolla, arrestando formazione e processi di crescita.
Se scegliere il cinema significa scegliere l’illusione contro la realtà (perché la “realtà è scadente” come dice Fellini al fratello di Fabio durante dei provini a Napoli), e se a questa missione vuole consacrarsi Fabio per poter anche compensare quello che non gli è stato fatto vedere, i corpi dei genitori morti all’ospedale di Roccaraso, è anche vero che formarsi significa ripartire dopo l’infrangersi delle illusioni, trovare fiducia nel mondo e nell’arte dopo averle sottratte alla sfera protettiva dell’idealità. Ritrovare fiducia a partire dalle macerie.
Allora, se il cinema di Sorrentino ha sposato sempre l’illusione, estetizzando spesso anche il dolore, qui sembra avviarsi, a partire dal racconto di qualcosa di intimo e personale, verso una qualche verità, che rompe la superficie dell’illusione.
Come vediamo in un momento molto bello del film, quando prima di decidersi a partire da Napoli, Fabio va dalla zia Patrizia in clinica psichiatrica, rivelandole il suo sogno folle di fare cinema, e lei gli risponde di essere la persona adatta a capire la follia. Tra l’artista e il folle il confine è sottile, entrambi vedono la verità: il primo ne soccombe, il secondo la porta ad espressione.
È stata la mano di Dio. Regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Carmine Guarino; costumi: Mariano Tufano; interpreti: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Ciro Capano, Enzo Decaro, Sofya Gershevich, Lino Musella; produzione: The Apartment, Netflix; origine: Italia; durata: 130′; anno: 2021.