«…Vivo nel presente e sostengo la libertà universale». La battuta, seriosa, è espressione d’un credo “impegnativo”. Ma infilato con leggerezza in un dialogo, in mezzo a un chiacchierare di corpi: sui propri, di adolescenti (perciò mutanti), su quelli d’altri che si guardano nelle foto da un profilo social, con dita curiose, divaricate su schermo a ingrandire l’immagine e introdurvi lo sguardo, immaginandosi a cosa si vuol somigliare, e ciò che si desidera dalla muta dei propri ormoni. E se il corpo – come ancora si dice nella scena descritta – è sintomo di quel mutare, di cosa è sintomo quello di We Are Who We Are, serie tv di Luca Guadagnino (scritta con Paolo Giordano e Francesca Manieri)? Per più ragioni, da We Are Who We Are stesso promana “libertà totale”; a sua volta “vive nel presente”, restituendo quello di un gruppo di adolescenti statunitensi in Italia, figli di militari di stanza in una base di Chioggia. Ultimo arrivato è Fraser, due mamme in uniforme, una biologica (nuova comandante della base) e la compagna. E c’è il far gruppo o coppie, lo scivolare tra accostamenti e allontanamenti continui, chiacchiere, feste, scoperte. C’è laguna e c’è asfalto, lo scoprirsi femminilità biologiche e desiderarsi invece mascoline e soldati, come Caitlin, che s’avvicina a Fraser. C’è l’incuriosirsi e fastidiarsi un po’ a vicenda, ritagliarsi mondi propri, chi cerca centri assoluti (come Danny che “ogni tanto pensa a Dio”) a giorni euforici e vite liquide.
Perché presente? Come da titolo, “Siamo chi siamo” (tautologia ed enigma: perché si è ancora in divenire, non cristallizzati in identità una volta per tutte nella vita; consegnati a vertigine di possibili da esperirsi) e nel sottotitolo Right Here Right Now (“Qui e ora”), è una serie completamente declinata al presente. Intanto, perché costruita diversamente da tanta altra serialità che vede un dipanarsi consequenziale della narrazione, o il suo frangersi in rivoli di vicende, più e meno accessorie, in un modificarsi di personaggi, il loro intrecciarsi “complesso” (Mittell 2017) o no che sia. Per differita che sia la “fine” di un racconto seriale (in forza di dispositivi narrativi sofisticati o più abusati cliffhanger e plot twist), pure, successione e teleologia restano insopprimibili comunque. E la promessa sempre rilanciata e sempre dilazionata di un “altro” accadimento, la possibilità di un continuo what’s next?, avvincono, alimentano o disattendono l’aspettativa.
Inatteso, invece, da questo punto di vista, il lavoro di Guadagnino, perché “è tutto lì, qui ed ora”, e questo, anzitutto, avvince e conquista. Scavalcando una logica della successione, delle aspettative, ma anche il deviare o il ritornare del racconto sui propri passi, il modularsi delle psicologie di personaggi nel tempo. Si direbbe che più che raccontarli e organizzarne narrativamente le vite in vista di una direzione (che, del resto, da piccoli apolidi, non hanno), Guadagnino semplicemente li veda, o che raccontarne significa far che il racconto si produca dai gesti, dai comportamenti. Significa captare, da camminate ciondolanti e occhiate curiose, un certo modo d’essere. Significa raccontare un modo e un mondo, coi libri che si leggono, con la musica che si ascolta, con la paura di ferirsi il labbro alla prima rasatura di baffi, o col divertito turbamento di scoprirsi impacciate al primo tampone.
È tutto lì, in questi gesti, mentre sta accadendo, che dicono “questi ragazzi sono chi sono”, con queste movenze, le parole che scambiano, le impegnative o le frivole, tutto insieme e liberamente perché tutto egualmente importante a quell’età e perché vissuto al presente. Senza che la coscienza matura filtri, gerarchizzi, organizzi in successione né il racconto s’incanali in una o più trame. È dunque il semplice manifestarsi di queste cose a raccontarle. Libertà totale, allora, anche perché tutto questo è svincolato dall’obbligo di far progredire o frammentare o deviare o tornare indietro (e insomma produrre) una storia. E questo anche ben al di là di una polarizzazione di simpatie o antipatie, di giudizi sui personaggi, sui loro ruoli. Volendo, adolescenza nuda, senza aggettivi, parafrasando/alterando il titolo del primo lungo di Maurice Pialat, L’enfance nue (1968), cineasta per altro oggetto d’omaggio esplicito nel nome della base militare-teatro della serie: “Caserma Maurizio Pialati”.
Libertà, anche, di stile di regia, di registri e toni: di reinventarli costantemente a seconda di umori e comportamenti da captare, passando da momenti “più regolarmente” montati ad altri macchina a mano, a lunghe inquadrature fisse, o frozen frames (e c’è spazio anche per il reenactement-citazione di un videoclip). E cos’è, poi, in questo captar corpi liberi e parole, e far che questi raccontino col loro stesso manifestarsi? Cos’è in certo sguardo “fenomenologico” prestato ad erratiche camminate al sole, o nell’indugiare di un intero episodio su un “festino”, cos’è questo svincolarsi da storie a vantaggio di un presente che è, esiste, tutto lì e qui ed ora?
È recuperare al formato “serie”, nutrendolo di potenzialità non “sue” proprie e con ciò arricchendolo, qualcosa del cinema. Nel senso che paradossalmente, da un punto di vista formale, molto di ciò che in We Are… giunge come “nuovo”, più che con dispositivi narrativi “propri” (o re-invenzioni) della serialità da “Golden Age”, rivela più prossima parentela col cinema. Con la scoperta, cioè, che era stata del cinema (moderno soprattutto, italiano fra l’altro), che qualcosa può dirsi al di fuori della narrazione e della consequenzialità di azioni, che mondi e personaggi possono darsi prescindendo da psicologie, da giudizi, che anche stasi o erraticità “raccontano”, filmando dei puri “essere al mondo”. E a cosa può rimandare il “dire qualcosa” di questi adolescenti che sono ciò che sono a partire dallo scrutare soli comportamenti, se non a un cinema che credeva che la significazione delle cose potesse emergere anche solo da un loro manifestarsi (come suggerirebbero le letture di Ayfre o Bazin, in chiave “fenomenologica”, del neorealismo) e prescindendo da psicologie e narrazioni?
In sostanza, We Are Who We Are dialoga col cinema (e infatti i riferimenti “seriali” di Guadagnino sono serie dirette – o concepite in gran parte – da cineasti: Heimat, 1984, Berlin Alexanderplatz, 1980, Twin Peaks, 1990) più di quanto non faccia con certa serialità. E con l’intuizione di certe possibilità espressive del cinema che in tanto cinema italiano si è dispiegata. Paradossale, per un lavoro così “non italiano” in termini produttivi, tecnici, di cast. Pure, il cosmo di questa serie è una base militare statunitense in Italia. È anche questo a toccare il corpo del presente, i suoi nervi scoperti e collisioni.
We Are… inizia, intanto, con due donne soldato (le mamme di Fraser), regolarmente sposate, dando quindi per pacificamente acquisite alla norma (come, giustamente, dovrebbe essere) da subito sia l’unione tra stessi sessi, sia che ruoli e uniformi non siano esclusiva d’un solo sesso. Ciò che altrove avrebbe funzionato come “trasgressione della norma”, anche in senso “libertario” o emancipativo, qui è invece dato in partenza, per giunta in un ambiente che il senso comune concepisce maschile. Il che è più nuovo, e “vive nel presente”. Allo stesso modo che inattesa (e, da questo punto di vista, nuovamente “scandalosa”, contro natura come tutti gli innamoramenti lo sono quando imprevisti, scardinanti) è la coppia etero lei-lui. E ancora: l’avvicinamento all’Islam di uno dei giovani protagonisti, non si fa (certo!) in una scuola salafita, ma, come “tutto”, su Internet. E nella casa di un padre trumpiano (siamo nel 2016), e dopo aver già timidamente scoperti sessualità e alcolici.
E poi, ci si può spogliare, donne ufficiali, esporre seni e glutei ai commilitoni – come accade alla madre di Fraser – per cambiarsi d’uniforme in una situazione d’emergenza, perché, tanto, “si è tutti soldati”, e paradossalmente con lo stesso gesto “doverista” mettere in crisi sessualità, ruoli, protocolli, uniformi.
We Are Who We Are è in tutto presente, libera, è coesistenza senza gerarchie né successioni. È gli affetti indecisi di Fraser per la coetanea Caitlin o l’adulto Jonathan, è cinema o è serie che non crede (come Fraser, per altre ragioni) a opposizioni binarie tra le forme, è scoperta che i desideri a lungo inseguiti non sono necessariamente ciò che davvero piace o somiglia. È scoprire, insomma, come accade a Fraser e Caitlin, che l’identità corre. Come si può (nell’ultimo episodio) correre tenendosi per mano, insieme inerpicarsi per i portici che, a Bologna, conducono a quello che qui viene definito “il posto più bello del mondo”, che è il panorama svettante sui colli visto dalla chiesa di san Luca. E che giustamente “non si vede”, perché puro domani possibile, apertura anelata, promessa di libertà non cristallizzata che dal presente si mira, si rincorre.
E poi, pensando a un’immagine che in qualche modo somigli a We Are…, torna in mente un racconto di David Foster Wallace che, tra l’altro, descrive (e, anche lui, non “narra”), come esiti un protagonista fresco di pubertà (più giovane, quindi, di quelli di We Are…), sul trampolino di una piscina prima di fare il suo bigger splash. In quell’esitare statico, in quell’arrestarsi di narrazione, semplicemente, è tutto lì. Non credendo all’opposizione binaria di chi sul trampolino l’incalza da dietro, né all’impatto stesso con l’acqua, è un po’ vertigine di possibili compresenti e ancora da esperirsi (che è un po’ percorrere portici in salita e il proprio “coming of age” e chissà quando arrivare alla fine). Il finale lo trova e lo lascia sospeso nel salto (titolo del racconto, infatti: Per sempre lassù). Ecco, We Are Who We Are è un po’ l’inquadratura di ciò che succede durante il salto, in quel presente, quando si è più liberi di correre.
Riferimenti bibliografici
A. Ayfre, Néo-réalisme et phénomenologie, in “Cahiers du Cinéma”, n. 17, 1952.
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1994.
D. Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2007.
R. Manassero, Intervista a Luca Guadagnino: We are who we are, in “Cineforum”, 16 dicembre 2020.
J. Mittell, Complex tv: teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, minimum fax, Roma 2017.
We Are Who We Are. Ideatore: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway; sceneggiatura: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri; montaggio: Marco Costa; musiche: Devonté Haynes; interpreti: Chloë Sevigny, Jack Dylan Grazer, Alice Braga, Jordan Kristine Seamón; produzione: The Apartment, Wildside, Small Forward, Sky Studios; distribuzione: Sky Atlantic; origine: Italia, Stati Uniti d’America; anno: 2020.