Tornare indietro di quarant’anni. Tornare a quei mesi in cui la musica pop si trasformò in una macchina di sensibilizzazione pubblica capace di agire su scala globale, in un momento di crisi delle ideologie novecentesche: prima con il singolo Do They Know It’s Christmas?, poi con We Are the World e, dunque, con il Live Aid. Il film di Bao Nguyen ci riporta al 1985, alla produzione del secondo dei due singoli incisi a scopo benefico. Lo fa alternando interviste di alcuni protagonisti della scena musicale degli anni ottanta e materiali d’archivio di quella nottata in cui quarantasei star accettarono – o, più realisticamente, giocarono con l’idea – di “lasciare il proprio ego fuori dalla porta” per dedicarsi a una causa umanitaria, alla lotta contro la fame nel continente africano.

Come è noto, nel corso degli anni, i videoclip delle due canzoni e l’intero progetto Live Aid sono diventati casi studio esemplari per riflettere sulle criticità di una pratica e di una comunicazione umanitaria top down, strettamente dipendenti dalla riconoscibilità di personaggi famosi che si prestano occasionalmente nel ruolo di testimonial o ambassador. Per chi frequenta la critica cinematografica e televisiva, la canzone We Are the World non può non richiamare alla memoria la penna fumante di Serge Daney e la sua idea di trasformare i video associati a quella canzone nella cartina di tornasole di un’etica dell’immagine, una specie di nuovo «carrello di Kapò»:

È quello che ho pensato guardando un breve filmato televisivo qualche giorno fa, che intrecciava languidamente immagini di cantanti famosi e bambini africani affamati. I ricchi cantanti – "We Are the Children, We Are the World!”– mescolavano le loro immagini con quelle degli affamati. In realtà li hanno sostituiti, li hanno cancellati. Fondendo e collegando stelle e scheletri in un tremolio figurativo in cui due immagini cercano di diventare una sola, la clip ha eseguito questa comunione elettronica tra Nord e Sud […] Non si tratta più dell’“immagine dell'altro”, ma di una delle tante immagini sul mercato delle immagini di marca. E questo mondo, che non mi fa più arrabbiare, che mi provoca solo stanchezza e ansia, è esattamente il mondo "senza cinema". In altre parole, senza il sentimento di appartenenza all'umanità attraverso quel Paese supplementare chiamato cinema.

Nei primi minuti del film di Bao Nguyen vengono riproposte alcune immagini della carestia in Etiopia ribadendo la retorica della “chiamata” all’impegno nei confronti dello star system e del pubblico. Dopodiché, il racconto retrospettivo di Lionel Richie – l’autore di We Are the World, insieme a Michael Jackson – ci porta a fare i conti con i problemi legati alla produzione e incisione del pezzo musicale. Anziché alternare immagini degli Stati Uniti e dell’Africa, anziché ribadire l’orizzonte storico e geografico della sfida in questione, il film si concentra sulle difficoltà di carattere logistico e, per così dire, psicologico legate alla convocazione in uno stesso studio, per l’incisione di un unico pezzo, di personalità come Stevie Wonder, Tina Turner, Diana Ross, Billy Joel, Cyndi Lauper, Harry Belafonte, Michael Jackson, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Ray Charles, etc.

Il passaggio dallo spazio geopolitico mondiale allo spazio chiuso dello studio di registrazione – una sorta di implosione che avviene dopo circa trenta minuti dall’inizio del racconto – costituisce il punto di massimo interesse del film, altrimenti uno dei tanti che passano su Netflix. Concentrandosi su quanto accade all’interno delle spazio chiuso dello studio, il film si spinge al cuore della contraddizione politica e morale insita in progetti come quello di We Are the World. Man mano che trascorrono le ore di quella lunga nottata, man mano che ci addentriamo nei filmati d’archivio realizzati presso gli Hollywood’s A&M Studios, la grande utopia – arrestare la fame, cambiare il mondo, annullare le sofferenze – si intreccia e lascia il posto alla piccola utopia: far convivere all’interno di una stessa stanza e armonizzare secondo i canoni della teoria musicale tante voci diverse. Il “noi” di cui parla la canzone costituisce in tal senso, come intuito da Daney, l’effetto di un lavoro di composizione e arrangiamento: la musica intesa come macchina capace di produrre architetture assolute, simulare mondi perfetti.

Se n’è parlato da più parti, in diverse recensioni del film, ed è forse la principale ragione del successo di We Are The World: la notte che ha cambiato il pop. La sequenza più bella è senz’altro quella in cui, dopo lunga attesa, arriva il momento di Bob Dylan, con la sua fama a precederlo. Come a tutti i solisti, gli è stata assegnata una parte del brano. Per ottimizzare i tempi di registrazione e missaggio, si è già tenuto in considerazione l’estensione vocale del cantautore. Sono giusto due frasi da dire, eppure Dylan sembra non farcela. Sta davanti al microfono senza dire nulla, non ci riesce, qualcosa non va. Il film rimonta buona parte della sequenza d’archivio – sufficiente a suscitare stupore – ma cercando su Youtube è possibile realizzare il fatto che il momento di difficoltà di Dylan è ben più lungo di quanto mostrato, fino a diventare una specie di impasse. Il produttore Quincy Jones arriva in soccorso, proponendogli di cantare nella tonalità che preferisce, anche distaccandosi da quanto programmato.

Ma com’è possibile – ci chiediamo – che l’autore e interprete straordinario di pezzi impegnati come Blowing in the Wind e Masters of War non riesca proprio a intonare questa canzone? La risposta sta nel proseguimento della sequenza stessa: Dylan che chiede a Stevie Wonder di improvvisare sul pezzo. Wonder lo fa con piacere, simulando, con il pianoforte e la propria voce, uno pseudo-Dylan che canta la strofa in questione. Lionel Richie – molto lucido durante tutta l’intervista che struttura il film – lo dice con parole esatte: “In quel momento Stevie fa da ventriloquo a Dylan”. A Dylan non resta che imitare la sua imitazione, adeguarsi al potere della musica in quanto intelligenza sintetica, intonare il pezzo, performare la sua aura di cantautore, aderire alla “piccola utopia”.

We Are The World: la notte che ha cambiato il pop è un film documentario programmaticamente celebrativo e, dunque, privo di un orientamento critico verso ciò che racconta e verso le immagini d’archivio che mostra. Eppure, fin dal titolo, esprime lucidità storica e interpretativa nei confronti della cultura musicale e visuale degli anni ottanta. Concentrandosi sullo spazio chiuso degli Hollywood’s A&M Studios, indaga il rapporto tra cultura pop e globalizzazione. Restituisce un ritratto efficace dell’epoca dell’immagine del We Are the World. Quella di un mondo tanto più globale, unito ed empatico quanto più componibile, arrangiabile e mixabile in uno studio di registrazione nel quale, per una notte, si ritrovano quarantasei superstar. Si tratta di un mondo pensato come sensibile e impegnato, “umanitario”. Eppure per qualcuno – Daney più di Dylan – manca una riflessione sui rapporti tra il qui e l’altrove, manca uno spazio per l’altro, manca l’aria. Non c’è nemmeno un soffio di vento nel quale continuare a cercare.

Riferimenti bibliografici
S. Daney, La Maison cinéma et le monde. Tome 4 – Le Moment «Trafic» (1991-1992), POL, Paris 2015.

We Are The World: la notte che ha cambiato il pop. Regia: Bao Nguyen; musiche: Darren Morze, Goh Nakamura; interpreti: Lionel Richie, Kim Carnes, Tom Bahler, Bob Dickinson, Sheila E., Humberto Gatica, Quincy Jones, Cyndi Lauper, Huey Lewis, Kenny Loggins, Steve Perry, Ruth Pointer, Wendy Rees, Bruce Springsteen, Harriet Sternberg, Dionne Warwick, Steven Ivory, Ken Woo; produzione: Bruce Eskowitz, Larry Klein, George Hencken, Harriet Sternberg, Kent Kubena, Julia Nottingham; distribuzione: Netflix; origine: USA, Regno Unito; durata: 96′; anno: 2024.

Tags     Michael Jackson, utopia
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