Nel suo penultimo film, Wanted (2023), Fabrizio Ferraro prende di petto l’implicazione estetico-politica del cinema e lo fa interrogando innanzitutto lo spettatore riguardo al suo posizionamento abitudinario, nei confronti della visione, in quanto processo elaborativo che non lascia intatto ciò che rivela, e dello scontro immancabile tra contendenti sul quale si sostiene l’esistenza umana, in quanto accanita caccia di una preda che non si separa mai del tutto dal predatore. Ricordarci che non si è mai un ricettacolo passivo di informazioni ammansite da qualcun altro, e che la propria collocazione nelle battaglie in corso non va mai da sé, è insomma l’attitudine particolare con cui il regista si incardina a sua volta nella scena, sottraendovisi, e assolvendo così al compito di spettatore radicalmente ricettivo nei confronti dell’imprevedibilità costitutiva dei propri spettatori, oltre che del reale stesso. Scritto prima della pandemia di Covid 19, e prima della guerra in Ucraina, come capitolo inaugurale di una nuova serie dedicata non più agli Unwanted dei film precedenti, presentato dal suo autore come un “film de-genere” che entra di traverso nella rigida classificazione del mercato audiovisivo da piattaforma, quest’opera ci fa fare una giravolta intorno all’atto archetipale del potere – l’esclusione – per cogliere come chi esclude finisca sempre, a sua volta, per escludere se stesso.
Qualcuno, dopotutto, l’ha definita la “zona grigia” (Primo Levi), alludendo così a quel genere di situazioni liminali, per la loro crudeltà, in cui la vittima e il carnefice tendono a sovrapporsi, in modo tanto inesorabile quanto tristemente paradigmatico. Qualcun’altro l’ha ascritta alla dimensione mimetica e antagonista del desiderio, quando il capro espiatorio di turno assolve anche una funzione simbolicamente salvifica e sacralizzante, che riconsegna l’esercizio della violenza collettiva alla sua scaturigine religiosa (René Girard). Qualcun altro ancora ha parlato di ambiguità costitutiva di ogni forza (Friedrich Nietzsche), la quale ha un punto di applicazione che è anche un suo punto di reversione eventuale. Ovunque e comunque si manifesti, il potere ha la forma di un intrico, sempre, in cui l’essere e il divenire delle società coesistono perché l’esperienza che se ne fa è anche il principio della loro intelligibilità potenziale – beninteso parziale, incoativa: fallimentare – e quindi della loro decostruzione a venire.
È lì che il nostro essere-nel-mondo si rivolge contro se stesso e comincia a inoltrarsi dove prima non sapeva nemmeno di essere mai stato, nel cuore ignoto di percezioni, azioni e affetti che pulsa al fondo di ogni costrutto razionale. E tutti sanno come il cinema, più di ogni altra forma espressiva, intrattenga un rapporto continuo con il potere. Girare un film, oltre a essere un gesto compiuto direttamente nel mondo coinvolgendo un certo numero di persone, che dovranno quindi convergere nella realizzazione di una singola opera, è una lotta più o meno sistematica e disperata contro ostacoli materiali di ogni tipo, e quindi contro intralci pratici e vincoli economici (Gilles Deleuze descriveva la storia della settima arte come un «lungo martirologio»).
La prima inquadratura di Wanted – configurata da una duplice e flessuosa carrellata che si insinua nello spazio antistante un condominio moderno – funge allora da propedeutica programmatica a un saggio-visuale sulla diagrammatica del dominio. Lo sappiamo, almeno dalle indagini genealogiche di Michel Foucault: i dispositivi biopolitici che intramano passo passo le nostre vite si nutrono senza sosta di una serie di forme di organizzazione dello spazio, e dei corpi che lo attraversano, destinate a restare sempre in divenire. Quel divenire è lo stesso divenire che fa loro scontare anche, altrettanto inevitabilmente, un ritardo strutturale sul movimento che i corpi articolano con quegli stessi spazi, e in quegli stessi spazi, quando si estrinsecano nell’intervallo indocile in cui l’irreggimentazione consueta conosce una qualche stasi fruttuosa, una qualche interruzione rinvigorente.
Quel divenire è lo stesso della “presenza senza rappresentazione” che il cinema riesce di tanto in tanto a produrre, come in questo caso, quando l’«immagine-in-movimento», con la sua capacità di illustrare una concatenazione senso-motoria di gesti, si salda alla sua portata di «immagine-tempo» (Gilles Deleuze), con il suo esporre la crisi del complesso azione-reazione che altrimenti anima la nostra quotidianità uniformata, e il sentire e il pensare fanno infine tutt’uno. Se dunque il cinema ha riflettuto su questo nodo critico con una certa insistenza, nella sua travagliata storia, lo ha fatto non solo per vocazione intrinseca, ma anche nell’unico modo in cui una riflessione del genere diventa concretamente possibile: chiedendo ai suoi autori e alle sue autrici di assumere una postura etica altrettanto determinante in seno al reale che mettono in forma e che restituiscono alla sua originaria incidenza stuporosa, alla sua incandescenza corporea: in altre parole, alla sua potenza genuinamente traumatica.
È nel centro di questa scena a due sensi, quindi, che i ruoli cardine del film si confondono catastroficamente. La fisionomia oppositiva con cui si è soliti concepirli viene meno, e la dialettica di una comunicazione sempre mancata tra i partecipanti al gioco della subalternità si rivela il destino ultimo del potere stesso. Così, le certezze di cui ognuno di noi ha bisogno tremano paurosamente, e la rassicurante tiritera con la quale ci si ripete di non militare mai dalla parte sbagliata lascia il passo alla necessità di rimanere in guardia, soprattutto verso se stessi, per sventare l’altrimenti paludosa e sicura collusione con il nemico.
La catastrofe va intesa dunque qui, etimologicamente, come il luogo di una svolta che dal centro conduce alla periferia, e viceversa, instillando in ciascuno il dubbio indispensabile circa il proprio condursi. Nessuno può abitare insomma il centro della scena, del potere e dello spettacolo, se non rinunciando alla sua pretesa di essere qualcuno, ovvero una persona portatrice di una singolarità, e perciò di una qualche infrazione ed eccedenza irriducibili all’ordine normativo consolidato. L’o-sceno, ovvero ciò che esorbita i limiti pattuiti dalla conformazione sociale di cui si è parte, è solamente un momento della scena, l’estremo suo rivolgersi contro la propria centratura di non-luogo in ultima istanza inabitabile, perché integralmente proceduralizzato.
Il plot di Wanted, d’altronde, potrebbe essere rubricato sotto il registro paradossale di uno spy movie sui generis, che interpella prima di tutto la propria struttura di racconto volto all’enunciazione e allo scioglimento di un enigma (la sceneggiatura, oltre che dello stesso Ferraro, è scritta in collaborazione con Valerio Carando). Una giovane donna (Denise Tantucci) viene interrogata da due agenti (una donna e un uomo più anziani: rispettivamente, Chiara Caselli e Giovanni Ludeno), i quali le ripetono senza posa di conoscere la natura dei suoi crimini, ma anche di avere bisogno, da parte sua, di una piena e recisa confessione. Si capisce subito, insomma, come si tratti di una rappresentazione, nel senso teatrale dell’espressione, senza la quale la macchina implacabile del potere non potrebbe dispiegarsi compiutamente e attrarre quindi nella sua orbita ogni specie di devianza prodotta dalla sua stessa vigenza. Il paradosso risiede insomma nell’inspiegabile bisogno, sul quale si fondano le strutture istituzionali di ogni sorta, di asseverare il già noto e di ripetere all’infinito il ritmo istituente che le ha poste in essere, proprio quando e dove il loro funzionamento macchinale si allenta più smaccatamente.
Il paradosso sta nella ricerca di una verità che, per quanto brandita come un’arma già posseduta, è incamminata da sempre sulla strada della sua disseminazione, se non addirittura della sua distruzione, perché la conservazione della propria auto-identità si fa ormai più dispendiosa, in termini di delitti e di depistaggi, della sua fisiologica mutazione. Se allora la forma di ogni medium è il contenuto del successivo, come salmodiava Marshall McLuhan, è perché anche il sapere ha questo andamento e si costruisce attraverso l’inclusione del proprio passato nell’obsolescenza incalzante del proprio futuro. Ogni tentativo di stringere una volta per tutte il reale nella redingote di categorie con le quali si prova ogni volta a tenerlo insieme sconta insomma la parzialità e l’insufficienza di un montaggio incerto e plurale. Quel sapere, insomma, è sempre un sapere del potere, ma anche sempre sul potere, un ponte tra il senso e l’apparenza della realtà condivisa che è cifra della loro intersezione inesauribile.
Non basta perciò guardare, bisogna anche saperlo fare nella maniera giusta, e anzi il guardare diventa qualcosa di più di un semplice vedere questo o quello quando si riveste di una giusta distanza – spaziale, temporale e modale. Quando, in breve, la sua inserzione nelle cose dismette la complicità silenziosa e perversa con il loro mero svolgimento, per interrompere così la trasmissione automatica del messaggio sulla quale si sostiene l’incubo fatale del controllo completo, a cui la società dello spettacolo vorrebbe istruirci e assuefarci. La trasparenza senza traccia di opacità, la definizione senza esitazioni scabrose, la piena corrispondenza tra intenzioni e risultato, a cui aspira la contemporaneità, sono soltanto i prodromi della fine di ogni vitalità, se non si comprende come ogni evento e ogni fatto acquistino forza sullo sfondo di una dinamica di dissenso, prima di tutto sensoriale e pragmatica, e quindi nel contesto del disordine disfunzionale e defusionale che esso allestisce invariabilmente al suo intorno.
In Wanted vengono infatti ricostruiti gli ultimi giorni dell’indagata prima dell’arresto attraverso un gioco intermediale che fa intervenire nel quadro spezzoni di riprese nascoste, come mappature degli ambienti in cui ha avuto luogo il presunto reato di insubordinazione. Sullo sfondo, una Roma cupa e deserta riecheggia il vuoto intorno al quale si svolge la vicenda, lambendo anche quello spazio peculiare che, in Italia, è stato il cinema – una Cinecittà mai così straniata e straniante, mai così brutalmente ricondotta alla sua precisa funzione di fabbrica in bancarotta dell’immaginario collettivo.
Chi sono allora costoro che non sanno altro se non che devono trovare un colpevole? Che cosa ha fatto costei, per meritarsi un simile trattamento, di cui peraltro è una sottile investigatrice, oltre che la nemesi annunciata? Lo Stato e i suoi apparati di repressione paiono in effetti ridotti ormai a gingillo nelle mani di una banda di malavitosi, che oscilla tra alte sfere economico-culturali e bassa delazione, come di fatto accade in ogni deriva totalitaria (sintomatici in questo senso i personaggi interpretati da Freddy Paul Grunert e Fulvio Luis Baglivi). L’enigma in cui il contesto narrativo è lasciato, e in cui affonda come in un magma incessantemente mutevole sul quale proiettare i propri fantasmi di connivenza, è dunque funzionale allo sviluppo della storia. C’è una cospirazione, da qualche parte, che si instrada all’interno delle architetture della città stravolta, per provare a sovvertirne la destinazione apocalittica; e c’è un sistema di sorveglianza che si vede sfuggire tra le mani non solo i suoi avversari naturali, gli ineffabili combattenti per la libertà, ma anche i suoi stessi esecutori.
Le linee di sovversione vengono dunque percorse in entrambe le direzioni: dall’interno della prigione, l’esterno si introduce come una malattia segreta nella sua rigida complessione di spazio interdetto; dall’esterno, l’interno appare come un’impenetrabile scatola nera, attraversabile solo in modo funambolico e rabdomantico. Il sottilissimo gioco di manipolazioni, di seduzioni incrociate, di cedimenti emotivi imminenti, ha fatto così il suo lavoro, sparigliando e sparpagliando ogni identità precostituita lungo il reticolo insondabile che le connette tutte le une alle altre, lungo l’intreccio di rimandi incrociati in cui ogni sostanza sentita come immobile si risolve in processo contingente.
È un’epifania, allora. Il centro della scena non solo è vuoto, ma è anche disertato da coloro che credono di poterlo abitare – nell’accezione precisa di una diserzione che è anche desertificazione, di una speranza di riscatto che è anche una condanna senza appello. La scena del potere e quella dello spettacolo si congiungono in una sintesi che le disarticola entrambe. La loro consistenza circola e si disfa al contempo intorno allo spettro di comportamenti stereotipati che, come in un giroscopio, non perdono mai il riferimento all’asse centrale della pura perdita, della dissipazione di ogni riserva cumulativa di risorse. Sembrerebbe, alla fine, che non resta altro da fare che scappare, come in una storia sci-fi in cui l’apocalisse è ormai già alle nostre spalle e la resistenza ha già perso perché non hai mai avuto alcuna chance. Sembrerebbe.
Le ultime battute del film inviano infatti un segnale altro – altro come il baluginio della natura, che resta inafferrata, altro come lo sguardo di uno dei personaggi (Caterina Gueli Rojo), che attraversa le topologie date, che travalica i confini, stagliandosi oltre ogni movimento precostituito. Lo spettatore è invitato quindi ancora a meravigliarsi, di se stesso e del mondo in cui è incapsulato, ma rispetto al quale è pure incitato a compiere un movimento eccentrico, per riprendere a sentirne il furioso vorticare. La musica di sottofondo è la vera misura comune, che entra senza chiedere permesso, che uccide il silenzio, per farlo rinascere, che cambia in funzione delle partiture attoriali, raramente così eterogenee e interlocutorie. Ferraro ha la singolare capacità di orchestrare un’inavvicinabile anti-spettacolo, fatto di continui spostamenti, di smarcamenti bruschi, di colpi di scena inanticipati perché, a ben vedere, parte integrante della stessa proliferazione micropolitica in cui si incanala la narrazione, nel momento in cui contro-inquisisce le procedure che ogni inquisizione si dà per non perdersi nel suo contrario.
Gli strati dell’analisi squadernati dalle immagini sono dunque molti e in un certo senso non si finisce mai di sfogliarli. Lo spettacolo cessa di essere tale, ovvero un rapporto sociale estrapolato dalla sua provenienza storica e lanciato in uno spazio di astrazione algida e mortifera, quando non è più disposto lungo una prospettiva perpendicolare, ma istiga appunto a situarsi accanto – accanto ai protagonisti del racconto, accanto all’inappropriabile formicolio del sensibile: accanto alla divinazione con cui l’arte cinematografica può di fatto rilanciare lo status quo in cui pure deve giocoforza installarsi. Sta allo spettatore cercare allora il punto di vista adeguato dal quale si aprono e si lasciano percorrere questi itinerari alternativi, queste rotte divergenti, senza più il timore paralizzante che si possa giungere un giorno a stringerle tutte tra le mani, come fossero soltanto un ricordo di un altro ricordo, o la memoria intristita di un’avventura mai intrapresa.
L’etica del cinema, vale a dire la sua risposta all’impregiudicata commistione con il potere che lo caratterizza sin dall’inizio, sta nel lasciare a chi lo fruisce e a chi giudica il dovere di provare a farlo diversamente. Si potrebbe dire anche, in conclusione, quando non fallisce troppo nel concedere a noi, che siamo dall’altra parte dello schermo, il diritto di non cedere sul proprio impulso a dare e a darsi la morte, innanzitutto in quanto esseri senzienti. E quindi, quando ci propone – come Ferraro ci ha abituato a fare da tempo con il suo corteo di personaggi erranti – di non cedere sul nostro diritto a non-essere nessuno, in tutta l’inestricabile ambivalenza dell’espressione.
Wanted. Regia: Fabrizio Ferraro; sceneggiatura: Fabrizio Ferraro; fotografia: Fabrizio Ferraro; montaggio: Fabrizio Ferraro; interpreti: Chiara Caselli, Denise Tantucci, Caterina Gueli, Giovanni Ludeno, Fabrizio Rongione, Fulvio Baglivi, Freddy Paul Grunert, Michelangelo Dalisi; produzione: Vivo Film, Rai Cinema; origine: Italia; durata: 90′; anno: 2023.