In principio è solo buio. Trascorrono alcuni secondi e finalmente una luce apre una crepa nell’oscurità, lanciando a chi osserva l’unico appiglio al quale lo sguardo faticosamente può aggrapparsi. Riconosciamo i fari di una macchina che si muove, poi altre piccole luci – delle torce? – cominciano ad animare l’immagine. Cosa stiamo guardando? Dove siamo? Difficile – impossibile – dirlo. A riempire la scena sono soprattutto i rumori: versi di animali, alcuni spari in lontananza, suoni indistinti. Infine, una voce metallica interrompe la nostra attesa: ci troviamo al confine con lo stato ungherese, la recinzione è dotata di un sistema di protezione elettrificato che non deve essere oltrepassato; l’invito – ripetuto prima in inglese e poi in molte altre lingue – è quello di astenersi dal commettere reato di danneggiamento, e di chiedere asilo presso l’ambasciata ungherese fuori dall’area Schengen.
Inizia così Waking Hours, il primo lungometraggio di Federico Cammarata e Filippo Foscarini. Interamente girato nelle foreste tra Bosnia, Serbia e Ungheria, il film segue le ore di veglia di un clan di passeur afghani, il loro abitare lo spazio out of joint del confine, ovvero quel luogo ibrido, contemporaneamente dentro e fuori la legge. Ed è proprio in questa zona mista che i migranti mettono in atto forme di autogestione e di sovvertimento delle logiche che governano la macchina securitaria che regola i flussi migratori. Nelle lunghe ore che separano la sera da un’alba che sembra non arrivare mai, infatti, vediamo i giovani afghani organizzare la cena e, ugualmente, coordinare i gruppi che dovranno attraversare la frontiera il giorno seguente.
Frutto di un lavoro sul campo durato solo 5 settimane, Waking Hours ci parla di uno dei luoghi che, negli anni, è diventato tra massimi snodi della rotta balcanica. In questo senso, l’operazione di Cammarata e Foscarini si colloca nel solco di alcune sperimentazioni filmiche che se per un verso hanno problematizzato la concezione di confine intesa come “fortezza”, allo stesso tempo hanno guardato alla complessità dei modelli migratori, così come alla crescente imprevedibilità delle loro direzioni non più riconducibili alla sola rotta che attraversa il Mediterraneo.
Nel provare a interrogare la nuova natura che i confini hanno assunto nel corso degli ultimi decenni, Sandro Mezzadra fa prima di tutto riferimento alla sua definizione originaria, ovvero quella di solco tracciato nella terra che istituisce una divisione tra spazi. È l’integrità dei confini a permettere l’esistenza dello Stato: il confine è il segno visibile della distinzione, della separazione tra esterno ed interno. Questa corrispondenza dello Stato con il territorio viene meno nel momento in cui si assiste a un vero e proprio processo de deterritorializzazione del confine stesso, alla sua frammentazione prismatica in cui le funzioni tipiche del controllo vengono spostate oltre la presunta linea di demarcazione che segna un dentro e un fuori.
Allo stesso tempo, sebbene le politiche di controllo dei confini esterni dell’Unione europea si siano in questi anni organizzate retoricamente attorno all’obiettivo di bloccare i movimenti di rifugiati e profughi, il loro effetto non è stato in alcun modo quello di sigillare ermeticamente i confini: «più che alla costruzione delle mura di una “fortezza”, si è piuttosto assistito alla predisposizione di un sistema di «dighe», di meccanismi di filtraggio» (Mezzadra, 2006, p. 183). Documentari come Trieste è bella di notte di Matteo Calore, Stefano Collizzoli e Andrea Segre, girato al confine “interno” dell’Europa, tra la Slovenia, Trieste e la Bosnia, lavori come Des spectre hantent l’Europe, di Marie Kourkouta e Niki Giannari, girato a Idomeni, uno dei più grandi campi profughi della Grecia, mettono in discussione l’immagine del confine quale entità statica raccontando, piuttosto, la sua natura di luogo in cui vengono messe in atto forme di socialità resistenziale. E tuttavia, l’operazione di Cammarata e Foscarini sembra voler radicalizzare l’impossibilità di ogni idea georeferenziale di confine.
Girato interamente di notte per questioni di sicurezza – le operazioni di Frontex avvenivano principalmente di giorno – il film è esposto al nero, tanto da rendere impossibile qualunque forma di riconoscimento e dunque, che possa esistere un confine di fatto visibile: non solo le coordinate spaziali vengono meno, ma se la notte diventa la materia stessa del film, allora le figure umane non possono che assumere una forma “fantasmatica”.
È interessante sottolineare come il film sia nato da un vero e proprio errore: nel 2023 i due registi si trovano tra la Serbia e la Bosnia per girare un documentario su alcune specie di insetti che vivono in quei luoghi, ritrovandosi invece a contatto con altre esistenze “notturne”: così, in un’operazione di stravolgimento radicale, è la vita dei migranti a diventare – al pari delle lucciole – bagliore luminoso intermittente, la cui sopravvivenza coincide con la possibilità di poter finire da una parte o dall’altra della Storia. Lo abbiamo già detto: il film è l’esito di un lavoro sul campo durato 5 settimane. Un tempo compresso, segnato dall’irruzione della polizia e il successivo smantellamento del campo durante una delle operazioni di Frontex. Ed è proprio davanti alla discontinuità del reale – l’impossibilità di continuare a filmare per questioni di sicurezza – che il cinema sembra intervenire ricucendo la cesura temporale, ricostruendo lo spazio attraverso un’operazione di montaggio – per opera di Cammarata – che conferma e con-forma. Allo stesso tempo, il lavoro sul soundscape – realizzato da Foscarini – costituisce lo sfondo dentro il quale si produce la paradossale in-azione di chi è costretto a vivere un limbo.
Rifuggendo da ogni possibile spettacolarizzazione dell’esperienza dei migranti, così come da qualunque intento di cronaca, il film si costruisce come una vera e propria esperienza immersiva dalla quale lo spettatore non sembra avere scampo. E tuttavia qualcosa accade. Mentre – finalmente – intorno a noi tutto tace, una telecamera a infrarossi riprende la corsa dei profughi verso la salvezza. È la sequenza finale – l’ultima possibile. Non sappiamo cosa accadrà e il lavoro di Cammarata e Foscarini sembra suggerirci che non potremo mai saperlo. Rimane il bagliore abbacinante di esistenze che tentano di sottrarsi al loro destino sospeso nel tempo a-storico della spettralità. Intanto è ancora sera, e mai mattina.
Riferimenti bibliografici
Sandro Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2006.
Waking Hours. Regia: Federico Cammarata, Filippo Foscarini; montaggio: Federico Cammarata, Filippo Foscarini con la consulenza di Sara Fgaier; fotografia: Federico Cammarata; colore: Ivan Tozzi; suono: Filippo Foscarini, Gianni Pallotto; produzione: Stefano Centini e Serena Alfieri (Volos Films Italia); origine: Italia; durata: 78′; anno: 2025.