Questo breve contributo non vuole essere un commento al documentario di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre, Trieste è bella di notte, presentato il 22 gennaio al Trieste Film Festival – Alpe Adria Cinema, e attualmente portato in tour nelle sale italiane da ZaLab. Né intende soffermarsi sulla terza e ultima stagione della serie televisiva La porta rossa, ambientata a Trieste. Piuttosto, questo contributo parla di due immagini che, almeno apparentemente, non si parlano tra loro. Due immagini che appaiono al contempo simili e radicalmente diverse, vicine eppure lontanissime. Questo contributo vuole provare a farle parlare tra loro e a forzarne, per così dire, l’impermeabilità.
La prima immagine proviene dal documentario Trieste è bella di notte, che ripercorre la rotta balcanica dei migranti asiatici per rivolgere un esplicito atto d’accusa contro le operazioni di respingimento avvenute nel pieno della pandemia (maggio 2020) sul confine italo-sloveno indietro fino alla Bosnia, senza che venisse data possibilità di fare richiesta di asilo.
È un’immagine “povera”, a bassa risoluzione, che restituisce l’impressione di bellezza del porto di Trieste di notte, con la sua distesa di luci, dal punto di vista di uno dei migranti che ha appena passato la frontiera e osserva la città dall’alto. Come molte altre immagini che testimoniano il lungo viaggio di speranza e disperazione dal Pakistan e dall’Afghanistan verso l’Italia, e come già accadeva in Mare chiuso (2012), è girata con il telefono cellulare di uno dei migranti e ne incarna la meraviglia, la felicità illusoria, le aspettative intense ma incerte.
Trieste è bella di notte, leggiamo nelle note di regia, «un film sul confine instabile e confuso tra sicurezza e diritto, dove la gara tra governi europei alla riduzione degli arrivi spinge le autorità a inventare procedure nuove, sfidando i limiti costituzionali e creando tensioni tra i diversi poteri dello Stato». Un film sul confine o, meglio, sulle molteplici dimensioni che il confine assume. Il confine italo-sloveno è confine interno, se lo guardiamo dal punto di vista della UE, e confine esterno, se lo consideriamo dal punto di vista degli stati nazionali. Ma confine interno è anche quello dello spazio entro cui vengono temporaneamente segregati i migranti, una sorta di borderland in cui i diritti possono venire sospesi e la sicurezza non essere garantita. Nel viaggio attraverso le periferie dell’Europa, attraverso luoghi e territori marginali che consentono di non essere visti e di sfuggire al controllo, confini e frontiere appaiono al contempo porosi e irremovibili, incerti e inflessibili.
La seconda immagine è tratta dall’incipit del pilot di La porta rossa, una serie coprodotta da Rai Fiction e Garbo Produzioni e creata da Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi, trasmessa in Italia da Rai 2 tra il 2017 e il 2023 e distribuita in ambito internazionale da Studio Canal. Il concept si basa su una ibridazione tra poliziesco e fantastico, raccontando le indagini del commissario Leonardo Cagliostro, assassinato nel primo episodio e rimasto nel mondo dei vivi come fantasma per indagare sul proprio omicidio e salvare sua moglie Anna.
Possiamo provare a leggere questa immagine come una sorta di “controcampo” narrativo impossibile della precedente immagine documentaria. Le luci del porto di Trieste sono di nuovo protagoniste ma in questo caso la città è sorvolata dal mare, e la bellezza è più nitida e più sontuosa. Anche nella serie girata da Carmine Elia (che nella terza stagione ha lasciato il posto a Gianpaolo Tescari), seppur in un modo molto diverso, Trieste è bella di notte: la serie si caratterizza infatti per i toni noir e le atmosfere livide e piovose, che valorizzano l’architettura e le luci nordiche della città nella messa a punto di un’identità visiva che proietta la serie in un reticolo di scambi e influenze internazionali generati, in prima istanza, dall’impatto del Nordic Noir come modello di prestigio per la serialità di produzione europea.
Trieste, città di confine tra il Nord e il Sud dell’Europa, svolge dunque un ruolo chiave nel facilitare i processi di rinnovamento della produzione televisiva italiana e di contaminazione transanzionale tra Nordic e Mediterranean Noir. Da un punto di vista estetico e narrativo, inoltre, il posizionamento della città al crocevia tra culture latine, slave e germaniche, sul confine tra Italia e Slovenia, tra terra e mare, la rende una location ideale per una storia che ha nel confine tra la vita e la morte uno dei suoi temi portanti. In un’intervista realizzata da chi scrive insieme a Massimiliano Coviello, il regista Carmine Elia ha dichiarato: «Conoscevo Trieste perché avevamo fatto un film con Tescari. Mi ero innamorato del fatto che era una città di confine, una città sospesa tra cielo e mare, tra Mediterraneo e Nord Europa. Una città di confine vero, come se fosse il delta di un fiume che entra nel mare, acqua salata e dolce. Per cui era una cosa interessante. Sono stato io a proporre Trieste perché mi sembrava una città geometrica, spigolosa, che potesse diventare parte funzionale della nostra storia».
Che sia il confine metaforico, estetico e tematico di una produzione seriale di finzione come La porta rossa, o il confine geografico e politico, interno ed esterno, di un documentario indipendente come Trieste è bella di notte, per la sua storia e la sua collocazione geopolitica Trieste ha rappresentato negli anni un punto di accesso privilegiato per comprendere il ruolo delle arti, dei media e della cultura popolare nella riflessione sul confine. A riprova di questo, basti pensare al volume Identità, confine (a cura di Leonardo Quaresima) che, nel 2021, ha raccolto e rilanciato la documentazione del convegno omonimo svoltosi proprio a Trieste trent’anni prima, nel 1991, nell’ambito della terza edizione dello stesso festival in cui anche Trieste è bella di notte ha iniziato il suo viaggio in sala e del consorzio “Alpe Adria”, attivo dalla fine degli anni Settanta (tra Austria, Germania, Italia, Jugoslavia – Slovenia e Croazia).
Nel 1991, «il cinema era stato scelto come il campo su cui misurare la “presa” dei temi legati all’”identià” e al “confine”, ma lo sguardo era stato assai più ampio […] e anche gli ambiti della letteratura e del teatro erano stati, […] seppur più limitatamente, convocati» (Quaresima, a cura di, 2021, p. 12). Oggi, e con particolare evidenza nell’ultimo decennio, tocca anche alla produzione seriale europea farsi “campo” per la riflessione sulle forme del confine, mostrando per esempio il ruolo degli spazi narrativi nel progressivo formarsi di un immaginario geografico europeo di carattere “translocale”, che forza sia i canoni visivi degli stati nazione sia le stereotipizzazioni di un’estetica globale o “glocale”, o ancora l’importanza del radicamento territoriale per un racconto che intenda riflettere sui processi di rinegoziazione delle identità transculturali nel continente europeo.
In un articolo dedicato a quelle che definisce border series, Michael Gott argomenta lungamente su come «le serie televisive possano offrire approfondimenti complessi e preziosi sugli accesi dibattiti intorno ai confini europei e possano avere il potenziale per raggiungere e influenzare un pubblico significativo». Gott sottolinea inoltre come le serie televisive possano contribuire a «definire l’idea profondamente controversa di cosa significhi “Europa” in un panorama post-1989», in cui i valori della diversità, della cooperazione e della solidarietà sono continuamente sfidati dai nazionalismi e dalle tensioni legate ai processi di gestione dei flussi migratori, delle risorse e della crisi climatica.
All’interno di uno scenario geopolitico che ha visto i confini tra Est e Ovest stravolgersi, e di uno scenario mediale con dinamiche di produzione e circolazione sempre più transnazionali e globali, Gott associa le border series a quattro principali declinazioni (non prive di aree di sovrapposizione) dell’idea di confine, che includono per esempio i networked borders, in cui si tematizzano le connessioni attraverso infrastrutture energetiche e reti di trasporto o di comunicazione, e le forested borderlands, che lasciano emergere le ansie rispetto a comunità rurali emarginate nelle periferie geografiche, economiche e politiche dell’Europa.
Le molte border series citate da Gott provengono da paesi dell’area nordica, dell’Europa orientale e dell’Europa occidentale – per esempio Francia, Belgio, Germania. Quello che colpisce, in questo quadro, è l’assenza di produzioni dall’Europa mediterranea, e in particolare da alcuni Stati-confine dell’Unione, come Spagna e Italia. Seppur un paese come l’Italia testimoni in maniera radicale l’esperienza ambivalente del confine come incontro e scontro, conflitto e dialogo, identità e differenza, la produzione seriale sembra esitare a farsene carico, limitandone la tematizzazione a linee narrative episodiche o secondarie, o interpretandolo in chiavi lontane dalle emergenze geopolitiche. È su questa assenza, che corrisponde al vuoto e alla distanza che sembra crearsi tra le due immagini da cui siamo partiti, e che emerge chiaramente proprio quando queste due immagini proviamo a farle parlare, che vogliamo concludere, e invitare a riflettere.
Riferimenti bibliografici
M. Coviello, V. Re, Geografia dei “margini”: l’utilizzo delle location periferiche nella serialità Rai di genere crime, in L’avventura, n. 2, 2021, pp. 257-277.
L. Quaresima, Identità, confine. Geografie, modelli, rappresentazioni, Mimesis, Milano-Udine 2021.
Trieste è bella di notte. Regia: Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre; sceneggiatura: Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore; fotografia: Matteo Calore; montaggio: Chiara Russo; suono: Alberto Cagol; mediatore culturale e traduttore: Ismail Ismail; produzione: ZaLab film, Vulcano; distribuzione: ZaLab Film; origine: Italia; durata: 75’; anno: 2023.