Dodici anni fa, quando ho battezzato il gruppo di ricerca che dirigo in Francia con un gioco di parole tipo «Vivere tra/mite gli schermi» – Vivre par(mi) les écrans –, certo non immaginavo fino a che punto quel titolo sarebbe arrivato a risultare indovinato. L’ho scoperto tornando a insegnare in Cina per cinque settimane dopo un’assenza di sei anni, di cui all’incirca quattro trascorsi – là come qua – fronteggiando la pandemia di Covid-19. Certo, già nel 2018 qualche collega cinese mi aveva raccontato, ancora con una certa sorpresa, che ormai usciva di casa senza portafogli perché si potevano effettuare i pagamenti tramite gli schermi dei propri cellulari. Ma non mi aspettavo che questo fosse ormai generalizzato al punto che, quando mi è capitato di porgere le mie banconote al commesso di un negozio, lui si è dovuto inchinare sui cassetti più bassi del bancone per ritrovare un sacchetto stropicciato dove ancora conservava alcune monete di metallo per darmi il resto. O al punto che, quando sono stato io a estrarre dal portafoglio qualche moneta, ho strappato esclamazioni ammirate ad una dottoranda cinese che mi scortava, la quale mi ha spiegato che non ne vedeva da anni. Io abilissimo o cavernicolo? A Shanghai, persino una mendicante si era ingegnata ad applicare il QR code sul suo barattolo per l’elemosina, che esibiva ormai solo per segnalarsi come indigente a persone disposte ad aiutarla scannerizzando quel QR.
Ma la penetrazione degli schermi nelle pieghe più quotidiane della vita cinese non si ferma qui. A cena con due colleghi italiani che insegnano a Shanghai, uno dei due raccontava quanto avesse dovuto penare per aver cambiato, insieme, passaporto e numero di cellulare, restando vittima di una vera e propria perdita d’identità. Del resto, il ruolo inaggirabile degli smartphones come garanti di quest’ultima mi è stato confermato da molti episodi, come quello dell’altro dottorando che, al tempo della pandemia, non poteva neppure uscire di casa senza cellulare, perché solo quest’ultimo attestava che lui a quell’ora aveva diritto di farlo.
Senz’altro l’esigenza di protezione anti-pandemica deve aver fornito una motivazione formidabile e una spinta conseguente a questa penetrazione capillare degli schermi nella vita quotidiana dei cinesi, il cui scopo più evidente sembra essere stato – e rimanere – la riduzione dei contatti fisici diretti o indiretti tra le persone, cioè quello che nel 2020 la giornalista e attivista canadese Naomi Klein chiamava il no-touch future e pronosticava come motore dello “screen new deal” post-pandemico che lei qualificava “capitalistico”: precisazione che fa molto pensare se riletta dalla Cina di oggi, dove vanno generalizzandosi non soltanto la digitalizzazione dei sistemi di pagamento per ridurre al massimo l’uso di denaro fisico, ma anche l’introduzione di schermi in grado d’interagire con le nostre mani senza bisogno di essere toccati (no-touch screens, insomma), oppure col nostro volto per stabilire inoppugnabilmente la nostra identità. E se i nonni del dottorando cinese alle prese con queste tecnologie sono in grande difficoltà, pazienza: ormai dappertutto le discriminazioni cominciano dalla data di nascita. Per arrivare, almeno nella mia esperienza pechinese, fino agli ingressi degli hotel dove i fattorini lasciano i cibi ordinati dagli ospiti, che appositi robot s’incaricheranno di portare fino alla loro porta, avvertendoli telefonicamente con voce metallica dell’arrivo e proteggendoli così da ogni contatto fisico diretto con altri umani. Nome dei robot: democracy. Sarcasmo cinese? Qualche occidentale fa di più, suggerendo di aggiungere: now.
Ma non solo ai nonni del mio dottorando cinese può capitare di restare esclusi dai servizi che queste tecnologie gestiscono. Anche a me è capitato di non essere riconosciuto dal sistema informatico dell’Università di Pechino in cui poco prima era stata immessa la mia fotografia, col risultato che all’ingresso del campus la guardia non si decideva a farmi passare pur avendo davanti a sé la card rilasciatami dalla stessa università ed il mio passaporto, l’una e l’altro intestati al tizio che la guardava da entrambi i documenti. Reazione interessante: l’umano non si prendeva la responsabilità di riconoscermi perché questa era delegata allo schermo che non lo faceva. Allora non avevo avuto torto, nel 2016, a scrivere che godono tuttora di molto credito le pretese degli schermi di essere spazi privilegiati in cui quanto appare è vero. Del resto, se non si pensasse proprio questo, perché farne lo strumento privilegiato di controlli bio-politici? Oppure: se non si pensasse che la maggior parte di noi lo crede, perché investirvi tanti capitali per farne veicoli di propaganda, commerciale o politica? Domande che poi, a guardar bene, rinviano rispettivamente ai due filoni individuati dal teorico dei media Lev Manovich nella genealogia degli schermi da lui proposta già più di vent’anni fa: il filone della sorveglianza e quello dell’intrattenimento pubblico.
Peraltro, quando il tuo riconoscimento facciale comincia finalmente a funzionare, diventa più difficile ricordarti che si tratta di un invasivo sistema appropriatosi senza alcun permesso di tuoi dati sensibili. Anzi, gli sei grato di accoglierti aprendoti subito il tornello come a un vecchio amico, invece di lasciarti agli interminabili controlli delle guardie di sicurezza.
In un contesto così capillare di penetrazione degli schermi nella vita quotidiana cinese, veniva spontaneo guardare con interesse particolare al fatto che, proprio quest’anno, la Biennale d’arte contemporanea di Shanghai, una delle più importanti dell’Asia, citava gli schermi già alla seconda riga del proprio testo d’Introduzione. Salvo essere poi costretti a constatare che, nelle installazioni presentate, non si andava molto oltre quello del cinema, sia pure – bontà dei curatori – expanded. Decisamente l’accelerazione tecnologica dei nostri comportamenti sembra allungare sempre di più il divario tra quanto facciamo e quanto riusciamo a pensarne. Basta osservare che, invariabilmente, colleghiamo gli schermi alle immagini, come se non li usassimo almeno altrettanto per leggere e scrivere. Ammesso che, nell’epoca in cui si mescolano parole e pittogrammi, quella distinzione abbia ancora un senso.
Riferimenti bibliografici
M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.
M. Carbone, G. Lingua, Antropologia degli schermi. Mostrare e nascondere, esporre e proteggere, LUISS University Press, 2024 (di prossima pubblicazione).
M. Carbone, A.C. Dalmasso, J. Bodini (éds.), Vivre par(mi) les écrans, Les Presses du réel, Dijon 2016.
F. Cimatti, A. Maiello, a cura di, Quasi viventi. Il mondo digitale dalla A alla Z, Codice, Torino, 2024 (di prossima pubblicazione).
N. Klein, How big tech plans to profit from the pandemic, in “The Guardian”, 13 marzo 2020.
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002.
P. Montani, Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio digitale, Meltemi, Milano 2020.