Vent’anni e poi. Conversazioni con Michel Foucault su amore e rivoluzione, trascrizione di una serie di dialoghi registrati nel 1976 tra il filosofo e il suo giovane amante Thierry Voeltzel uscita quest’anno in traduzione italiana per Meltemi, è un documento il cui valore sopravanza di gran lunga un interesse di natura puramente storica o biografica. Non che quest’ultimo manchi, suscitato com’è dal racconto delle circostanze dell’incontro e dell’evoluzione della relazione tra i due, ripercorse in una postfazione del 2014 dello stesso Voeltzel, e dal modo in cui l’intreccio delle due vite, quella dell’affermato filosofo cinquantenne e quella del ventenne in rotta con la famiglia e rimpallato tra autostop, lavori umili e militanza febbrile, accede alla riflessione e alla dimensione pubblica grazie ad un’iniziativa editoriale dello stesso Foucault e di Claude Mauriac. Soltanto che questo interesse, al netto di una vena anti-intellettualistica che Foucault imprime con insistenza da un capo all’altro della conversazione, e anzi forse grazie ad un tale sforzo che pure talvolta potrebbe apparire un po’ ostentato, finisce per convertirsi in uno spessore che non dovremmo esitare a definire filosofico in senso pieno.
Faremmo bene, infatti, a leggere questo testo come uno dei migliori controcanti possibili ad uno dei documenti più significativi sulla posizione che la figura del filosofo assume nel corso del Novecento in rapporto a ciò che filosofia in senso stretto non è, o meglio a ciò che essa pretenderebbe in qualche modo di lasciare fuori dal proprio perimetro: l’intervista concessa da Martin Heidegger allo “Spiegel” nel 1966 e pubblicata postuma per volontà del filosofo. In quelle pagine, la celebre sentenza secondo la quale «ormai soltanto un Dio ci può salvare», formula escatologica in cui culmina il percorso intellettuale heideggeriano e che dà il titolo all’intervista stessa, faceva il paio col netto rifiuto da parte di Heidegger, incalzato dagli intervistatori, di fornire un criterio di qualsiasi tipo alla prassi quotidiana, all’etica, alla critica, all’azione politica e alla scena sia privata che pubblica nella quale si muovono «politici, semi-politici, cittadini, giornalisti ecc.» (Heidegger 1998, pp. 288-289): incomunicabilità assoluta, frattura inemendabile tra il filosofo e coloro che filosofi non sono, divieto e impossibilità totale da parte del pensiero di esprimersi nella forma di discorsi e condotte capaci di coinvolgere, più o meno direttamente, l’intero corpo della società.
Tutto il contrario delle poco più di cento pagine della conversazione tra Foucault e Voeltzel. Vi ritroviamo, infatti, l’inesausto e appassionato tentativo del filosofo di lasciar affiorare nel corso del dialogo, componendole col racconto delle esperienze e coi pensieri del giovane amico, tutta una serie di concetti, tematiche, ipotesi e conclusioni al centro della ricerca intellettuale foucaultiana, dei libri, dei corsi al Collège de France e delle conferenze in giro per il mondo. In primis la decostruzione dei concetti di amore e rivoluzione, due tematiche che l’ottima prefazione di Lorenzo Petrachi, riconoscendole a ragione come centrali in questa particolare declinazione dell’attività filosofica foucaultiana, aiuta a contestualizzare in riferimento all’opera accademica di Foucault grazie a puntuali rimandi bibliografici. Amore e rivoluzione sono bersagli prioritari dal momento in cui, potremmo dire generalizzando un po’, si oppongono con particolare forza a quello che Gilles Deleuze riteneva essere il vero «criterio», di natura immanente ed estetica, della prassi critica foucaultiana: l’invito a valutare i modi di esistenza «in “possibilità”, in libertà, in creatività», prescindendo dal riferimento ad «universali della catastrofe» e a valori trascendenti (Deleuze 2007, p. 24).
La decostruzione del concetto di amore come «segno unico» e della dichiarazione d’amore come struttura binaria, «vincolo rigoroso» che grava sulle forme di relazione e dunque sulla costruzione di un certo tipo di soggettività nel suo rapporto all’enunciazione della verità, dischiude «tutta una panoplia, tutta una gamma di sentimenti intensi, ricchi, colorati» che Foucault, notoriamente tra i maggiori critici del concetto di repressione e di un corrispettivo progetto di liberazione o emancipazione in senso forte, qui si spinge a definire come «il fatto maggiormente liberatorio» (Voeltzel 2021, p. 48). Complice di questa mortificazione è appunto la rivoluzione come principio di intellegibilità della storicità della prassi, nella misura in cui coincide per Foucault con una ingiunzione a differire il piacere («del piacere parleremo dopo, dopo la rivoluzione»), nonché con quell’«idea un po’ reichiana, cioè post-freudiana, che tutto vada analizzato in termini economici, che quello che non si dà a uno deve essere riservato per l’altro, ciò che si dà al proprio piacere non lo si può dare al lavoro, ciò che si dà al proprio corpo non lo si può dare alla lotta, eccetera» (ivi, pp. 92-93): piccola escatologia quotidiana ed economia ristretta dietro la quale riluce la consapevolezza che, come afferma Thierry verso la fine del dialogo, «di per sé non esistono categorie, c’è semplicemente un piacere che non è possibile ripartire secondo le norme, ma che ripartiamo in continuazione» (ivi, p. 155).
Ciò che di questa lettura ci sembra più prezioso è insomma questo dispiegamento della “filosofia” o della “ricerca” foucaultiana in una condotta dialogica intima e quotidiana, passaggio talmente fluido al punto che sarebbe inopportuno caratterizzarlo come una “traduzione” della teoria in una pratica, trattandosi piuttosto della migliore occasione per riconoscere nella filosofia un’arma o una forma di prassi da valutare al pari di tutte le altre sulla base degli effetti che è in grado di produrre, e con i quali coincide senza riserve. Solo sulla base di questo riconoscimento, di questa demistificazione di una certa malafede della postura filosofica capace di restituire a quest’ultima un’effettività più autentica, ci sembra possibile in un secondo momento sollevare le problematiche che una tale operazione senz’altro implica. Come ad esempio la difficoltà di questa strana maieutica foucaultiana, affiorante più volte in modo esplicito nel corso del dialogo, di disattivare completamente la postura “confessionale”, altra grande preoccupazione teoretica dell’ultimo Foucault messa per così dire alla prova nelle conversazioni con Voeltzel («Però devi ammettere che non ho fatto molto per indurti a confessare. Ti ho lasciato dire quello che avevi voglia di dire…», ivi, p. 159).
O ancora, e forse soprattutto, la spinosa questione della ricontestualizzazione storica, del radicale mutamento delle “linee di attualizzazione”, per dirla ancora con Deleuze, che, a più di quarant’anni dalla prima pubblicazione in francese (1978), possono oggi dipartirsi dalla lettura di Vent’anni e poi. In questo senso, ci lascia un po’ a bocca asciutta il vago invito di Petrachi a riattualizzare la critica foucaultiana alla rivoluzione in chiave antisovranista (ivi, p. 18), suggerimento posto in conclusione ad una prefazione che pure ha il merito di insistere sulla «vertiginosa distanza» (ivi, p. 8) che separa il milieu storico delle conversazioni tra Michel e Thierry dal nostro. Piuttosto, converrebbe forse interrogarsi in primo luogo sull’insidioso rapporto tra l’impulso progressista verso la moltiplicazione della quantità e delle vie del piacere, qui meglio che altrove coglibile all’intersezione della sua duplice natura di programma intellettuale e di mutamento culturale dal basso, e il prodotto o la versione di questo impulso che il cosiddetto sistema sembra sempre più in grado di incorporare, generando meccanismi di violenza e di esclusione più subdoli di quelli che questo impulso pretendeva di dissipare. Questione da affrontare non sulla scorta di drastici e ideologici aut aut, tali da prendere nettamente posizione in favore della complicità assoluta o viceversa della totale eterogeneità tra la “realtà autentica” di questo progetto e il suo “simulacro”, bensì con atteggiamento “topografico”, pazientemente intenzionato a ricostruire tutta l’intricata trama di strategie anonime, rapporti di potere ed effetti che danno luogo a questa polarità, secondo il grande insegnamento della stagione filosofica di cui Foucault è stato uno dei protagonisti.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007.
M. Heidegger, “Martin Heidegger intervistato dallo Spiegel”, in id., Scritti Politici (1933-1966), a cura di G. Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998.
Thierry Voeltzel, Vent’anni e poi. Conversazioni con Michel Foucault su amore e rivoluzione, Meltemi, Milano 2021.