Ancora una volta, come ne Il segreto del suo volto (2014) e La donna dello scrittore (2018), Petzold ci mette di fronte alle vibrazioni misteriose di una identità femminile. In questo caso Undine porta inscritto nel suo stesso nome un archetipo. Quello legato alla leggenda nordica della ninfa d’acqua, dello spirito elementare che per amore di un umano si destina alla perdita della sua fluidità. Ma che deve tornare a perdersi nel suo elemento acquatico, qualora  l’uomo la tradisse dopo averle giurato amore eterno. E lei sarebbe comunque costretta a ucciderlo.

Tale è il fondo archetipico di un film che si configura come una histoire d’eau e insieme come un “gioco dell’amore e del caso”. Questa Undine moderna lavora al Märkisches Museum di Berlino, conduce i visitatori intorno a un plastico di Berlino e ne illustra le trasformazioni topografiche, ma è come se il suo sguardo trapassasse la Storia e il suo racconto provenisse dalla profondità di un abisso che si nasconde nel sottosuolo acquatico della città. Intuiamo che Petzold ci sta conducendo lungo una spettralità che scorre a onde nelle immagini e ci trascina negli incroci imperscrutabili del caso. Questa costruzione topografica si ripercuote nell’intreccio destinale dell’incontro amoroso di Undine e Christoph da un lato, e della storia d’amore conclusasi, ab initio, con Johannes.

Il film comincia con un intenso primissimo piano del volto enigmatico di Undine che, seduta con Johannes, al bar accanto al Museo annuncia: “Se mi lasci dovrò ucciderti”. Poi si allontana per il suo tour al museo e lo avvisa del fatto che se al suo ritorno non lo troverà, il destino di morte per Johannes sarà segnato. Ma è proprio al ritorno sui suoi passi, dentro quel bar, che il posto vuoto lasciato da un amore finito, quel punctum che è insieme un luogo e un fato, lascia irrompere l’incontro con Christoph, un giovane ingegnere subacqueo che per mestiere sonda le profondità lacustri. E quell’immergersi diventa anche il sondare gli abissi di un amore fatale.

Quando i due si incontrano per caso nel bar, per una sorta di lapsus fisico, come una forza magnetica, la vetrata di un grande acquario va in frantumi. Undine e Christoph si ritrovano a guardarsi negli occhi, sul pavimento pieno d’acqua tra il boccheggiare dei pesci accanto al pupazzetto di un piccolo palombaro: una immagine che sembra prefigurare tutto il clima allucinatorio, eppure molto fisico, che da quel momento prende a scorrere nel film. Si scatena la corrente di un amour fou. Perché è proprio di un amour fou alla Breton che si tratta.

Berlino qui ha la stessa funzione della Parigi del romanzo bretoniano Nadja (laddove la misteriosa protagonista disegna se stessa come una sirena su foglietti di carta volante). Oltre ad essere perlustrata secondo una frammentarietà percettiva, percorsa dalle camminate di Undine e dalle sue corse all’impazzata, che rimanda alla Berlino benjaminiana. L’irrealtà si trasfonde nella percezione dei flussi di movimento, ma insieme potenzia il reale delle immagini. Come accadeva nel cinema di Epstein e di Vigo (il cui L’Atalante è più volte esplicitamente citato), quella che Deleuze chiama immagine-percezione trascorre nel film come un flusso liquido. Del resto l’Ondina mitologica è una ninfa delle acque e porta con sé una fatalità cui non si sfugge. Così implacabilmente Penzoldt accompagna Undine al compiersi di questa fatalità.

Sempre come un incrocio del caso (trattato con la misteriosa limpidezza di un Kieślowski), Undine e Christoph incrociano per strada Johannes con la sua nuova donna. Il destino di “morte per acqua” dell’ex-amante si compie: Undine lo affoga di notte in una piscina (in una scena che ricorda l’agguato in piscina di Cat People di Jacques Tourneur, dove pure si tratta dell’amore fatale tra un umano e una donna-animale). Il rivelarsi a poco a poco della natura di spirito degli elementi, dell’intreccio umano-animale dell’essere sirenico, imprime, sulle note ricorrenti e cristalline di Bach, una cadenza, un incedere insieme da fiaba romantica (il mito di Undine fu un topos del romanticismo tedesco, dal racconto di Friedrich de la Motte Fouqué all’opera lirica di Hoffmann) e insieme da “thriller dell’anima”.

Petzold sembra sapere a perfezione che il cinema oltre ad avere una natura vampirica possiede anche una natura sirenica, cioè incantatoria, ondulante, riflettente, e soprattutto echeggiante. Il lavoro sul sonoro in questo film è stupefacente, gli echi profondi, i rigurgiti subacquei, il sordo rimbombo delle immersioni, sembrano filmare l’eco inaudibile di qualcosa di sottilmente irrevocabile e che pure può essere richiamato a un udito interiore. Lo stesso riprendere spesso la “mutacità” del volto di un’attrice mirabile come Paula Beer (premiata alla Berlinale come migliore attrice) estrapola quanto di perturbante e silenziosamente minaccioso, oltre che fatalmente erotico, c’è nella sua aura. I registri del melodrammatico, del fantastico e del sur-naturalistico si intrecciano con un’abilità di intarsio, una geometria delle passioni, tali da imprimere alle immagini insieme trasparenza e fantasmaticità.

Nella fiaba la figura dell’anima diviene specchio lucente del principio di individuazione. È questo principio che separa Ondina dagli umani. Gli spiriti elementali, profondamente animalisti, ritornano dopo secoli e secoli all’elemento da cui sono nati, senza resto d’ossa e memoria, ritornano sabbia e fiamma e vento e onda (Grieco 2017, p. 270).

L’elemento acquatico pervade una storia d’acqua che è anche una storia di identificazione impossibile. Nessuno potrà mai individuare la verità sulla identità di Undine, se non la natura intrinseca della sua stessa immagine, del suo spettro immerso e fluttuante nel fondo acquatico. Per immergersi in questo fondo immaginario, il film allena il nostro occhio e le nostre orecchie a una visività e sonorità altre, che possono essere attinte solo dall’incontro impossibile degli amanti in un’altra dimensione, attraversandone continuamente la soglia tra profondità e superficie, personale e impersonale, morte e rinascita (come sosteneva Jean Cocteau).

Infatti sia Christoph che Undine sembrano sparire sotto la coltre dell’acqua per poi ritornare in vita. Undine parla al telefono con Christoph proprio nel momento in cui lui (come le diranno in ospedale) è cerebralmente morto, salvo ritornare di soprassalto in vita per l’effetto dell’improvviso avvento dell’immagine spettrale di  lei. E ad Undine “salvata dalle acque”, Christoph restituisce il respiro con una respirazione bocca a bocca seguendo il ritmo di Stayin’ Alive, in uno dei momenti più lancinanti del film. Assolvimento e dissolvimento dell’immagine possibile e dell’incontro d’amore sempre impossibile proprio nel punto in cui si apre a tutte le possibilità.

Amo […] il verde nell’acqua e le mute creature (muta sarò presto anche io!) e i miei capelli tra quelle, nell’acqua, nell’imparziale acqua, nell’indifferente specchio che mi impedisce di vedervi altrimenti. L’umida barriera tra me e me… (Bachmann 1985)

Così scriveva Ingeborg Bachmann nel racconto Ondina se ne va, contenuto in Il trentesimo anno. Ed è proprio quell’umida barriera in cui il nostro profondo ci fissa, interrogativo, che viene filmata quando Christoph in una delle sue immersioni si trova di fronte  al pesce-gatto che lo scruta nella sua sembianza da mostro favoloso, oppure quando scopre su un pilastro sotto le acque (come fosse il “genius loci” della fondazione ancestrale della città) il nome di Undine. Parafrasando  l’epitaffio di John Keats, “Un nome scritto sull’acqua”, il segreto del film risiede nei corpi, nelle parvenze, nelle immagini “scritte” con l’acqua.

Riferimenti bibliografici
I. Bachmann, Il trentesimo anno, Adelphi, Milano 1985.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1999.
A. Grieco, Atlante delle sirene, Il Saggiatore, Milano 2017.

Undine: un amore per sempre. Regia: Christian Petzold; fotografia: Hans Fromm; montaggio: Bettina Böhler; sceneggiatura: Christian Petzold; interpreti: Paula Beer, Franz Rogovski, Maryam Zaree, Jacob Matschenz; produzione: Schramm Film Koerner & Weber, Les Films du Losange, ZDF, Arte France Cinéma; origine: Germania, Francia; anno: 2020; durata: 90′.

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