In una pagina del diario del 1917, lo stesso anno di Una relazione per un’accademia, Kafka scriveva: «L’età della ferita, più della sua profondità e del suo propagarsi, ne costituisce la dolorosità. Essere continuamente squarciato nel medesimo canale della ferita, veder medicata nuovamente la ferita già operata infinite volte, ecco il guaio» (Kafka 1988, p. 568). Si tratta di una ferita che non si rimargina, che continua a sanguinare. Ma che cos’è questa ferita che non è più una ferita ma diventa un nuovo “canale”, come un’altra bocca o un altro naso? E perché questa ferita non smette di riaprirsi?
Nel diciassettesimo Seminario, tenuto fra 1969 e 1970, intitolato Il rovescio della psicoanalisi, Jacques Lacan schematizza con la formula seguente il cosiddetto discorso del padrone, quello che stabilisce e fissa i rapporti fra il soggetto umano e il sistema sociale che lo determina: S1/$ → S2/a. S1 è «l’Io del padrone» (Lacan 1969-1970, p. 1761), cioè quello che determina il comportamento del soggetto ($, che infatti è barrato, cioè è cancellato, dal momento che non controlla sé stesso proprio perché sottoposto al regime imposto dal discorso del padrone); S2 è il «sapere» che si sviluppa da questa situazione, ossia, come scrive Kafka, la sequela delle operazioni sulla «ferita già operata infinite volte». Una sequela che non mira, evidentemente, a guarire la ferita, ma semmai a rendere impossibile che possa guarire. a, infine, è il nucleo indicibile del desiderio, che infatti sembra potersi mostrare solo fuggendo via da S2. Ma non da S1.
All’inizio c’è allora S1, all’inizio c’è una ferita. Di che ferita si tratti viene descritto nello straordinario racconto Una relazione per un’accademia (non per l’Accademia, ma per una qualunque accademia, ché la funzione dell’accademia non è curare le ferite, ma solo di descrivere “oggettivamente” le ferite; da notare che nello stesso 1917 viene pubblicato il fondamentale libro dello psicologo tedesco Wolfgang Köhler che riportava i suoi esperimenti sull’intelligenza delle scimmie antropoidi in cattività, Intelligenzprüfungen an Anthropoiden). Si tratta del racconto immaginario di una scimmia, Rotpeter (Pietro il rosso), che descrive di fronte agli «eccellenti signori dell’accademia» (Kafka 2023, pp. 1760-1781, p. 1761) – siamo sempre tutti di fronte a questi “eccellenti signori” – la sua storia, dal rapimento quando ancora viveva nella Costa d’Oro insieme ai suoi simili fino alla sua vita presente, quella di una incredibile attrazione di successo nei teatri di tutto il mondo:
Voi mi fate l’onore di chiedermi per la vostra accademia una relazione sulla mia precedente vita di scimmia. In questo senso purtroppo non posso adempiere all’invito. Quasi cinque anni mi dividono dalla condizione di scimmia, un tempo forse breve se misurato sul calendario, ma infinitamente lungo da attraversare al galoppo come ho fatto io […]. Questo risultato sarebbe stato impossibile se mi fossi ostinato a voler rimanere attaccato alla mia origine e ai miei ricordi di gioventù. Proprio una piena rinuncia a ogni ostinazione è stato il primo comandamento che mi sono imposto; io, che ero una scimmia libera, mi sono adattata a questo giogo. A loro volta, però, i ricordi in questo modo mi si rifiutavano sempre di più. (ibidem)
Rotpeter è vivo, ossia è sopravvissuto alle ferite (il soprannome di Pietro il rosso viene da una cicatrice lasciata da uno dei due colpi di fucile che lo fecero stramazzare a terra), è un’attrazione di successo, ricca e acclamata. Una condizione che ha potuto ottenere, tuttavia, solo ad un prezzo terribile, staccandosi per sempre dalla sua “origine” e dai suoi “ricordi di gioventù”. Ricordi, tuttavia, che non ci sono più, perché Rotpeter si ricorda ormai solo della sua condizione quasi umana (non si smette mai di essere inumani). Perché quando viveva nella Costa d’Oro Rotpeter non esisteva ancora. In effetti di quel tempo Rotpeter non sa propriamente nulla, i suoi ricordi cominciano con la cattura, ossia con la ferita. Immagina di aver vissuto una vita precedente a quella con gli umani, ma non ha più alcun ricordo di quel tempo, per questo non può più “adempiere all’invito” di raccontare la sua “precedente vita di scimmia”. Questa vita, in realtà, non c’è mai stata, l’unica vita di Rotpeter è quella umanizzata.
All’inizio c’è il trauma, l’inizio coincide con il trauma. Per questo l’origine è da sempre perduta: «Dopo quei colpi mi risvegliai – e qui cominciano pian piano i miei ricordi personali – in una gabbia, sul ponte mediano del vaporetto Hagenbeck» (ivi, p. 1765), l’impresario che finanziava la spedizione per la cattura degli animali. Rotpter viene al mondo in quella gabbia, prima, nel tempo mitico della Costa d’Oro, non esisteva nessuna soggettività (infatti non aveva un nome). I due colpi che quasi l’uccidevano (l’altro, all’anca, lo lascia per sempre claudicante) rappresentano la sua presa di coscienza di esserci nel mondo; all’inizio c’è la ferita e una gabbia: «Per la prima volta nella mia vita non avevo vie d’uscita».
Il processo del divenire umano comincia con questa consapevolezza: «Ero saldamente in trappola. Se mi avessero inchiodato, la mia libertà di movimento non sarebbe stata minore» (ibidem). Il problema di Rotpeter non è tanto, e non solo, di essere rinchiuso in una gabbia, quanto che ormai, e proprio perché è diventato un animale chiamato “Rotpeter”, non è altro che un entità determinata – in particolare una scimmia imprigionata – secondo il “discorso del padrone”, cioè il mondo umano. Che cos’era, infatti, prima di essere ferito e catturato? Era una scimmia, dirà chi pensa solo in termini metafisici, cioè in termini di sostanze e accidenti. In realtà non era una scimmia nel senso di un libro di zoologia, era un vivente che viveva una vita del tutto priva di determinazioni, senza pensarsi come una scimmia che vive in una foresta e che conduce un’esistenza da scimmia antropoide: era un vivente che viveva una vita senza altre qualificazioni. Era una vita, e basta.
Diventare umani, al contrario, significa diventare un vivente che vive la vita che la metafisica – cioè appunto il discorso del padrone – ha stabilito che si debba vivere, ad esempio una vita da “scimmia”. È quello che Rotpeter impara subito, se vuole sopravvivere deve velocemente imparare a vivere come il mondo degli umani si aspetta che viva, come un umano appunto, e soprattutto che impari a parlare: «Non mi attirava imitare gli uomini; li imitavo solo perché cercavo una via d’uscita, nient’altro. […] E così, signori, ho imparato. Ah, si impara bene quando si è obbligati; si impara, quando si vuol trovare una via d’uscita; si impara senza riguardi per nessuno. Ci si sorveglia da soli con la frusta; e alla minima resistenza ci si strazia le carni. Come sparata fuori, la natura di scimmia uscì da me e sparì» (ivi, p. 1773).
Vuoi essere umano, allora parla. La regola è semplice, e Rotpeter è intelligente, sa che l’unica “via d’uscita” è accettare di non averne: si tratta di diventare umani, ossia dimenticare la vita della Costa d’Oro, la vita prima della ferita, prima ancora di essere costretti a subire l’umiliazione di ricevere un nome.
Da notare che quello che racconta Rotpeter è del tutto simile (a parti invertite) a quello che raccontano Beatrice e Allen Gardner, due psicologi statunitensi che, negli anni ’60, provarono – e il perché provarono a farlo rimane del tutto misterioso – a insegnare ad una giovane femmina di scimpanzé, anch’essa catturata da qualche parte nell’Africa occidentale (non precisano dove, appunto, perché ciò che precede la cattura nel dispositivo umano non conta; da notare che la prima cattura era stata finanziata dalla Nasa per studiare gli effetti del volo spaziale su corpi simili a quelli umani) – ad usare una forma semplificata del linguaggio gestuale delle persone sorde (American Sign Language).
Ma perché insegnare ad un vivente non umano a comunicare con noialtri umani? Già, perché? I due scienziati non rispondono a questa domanda, che in fondo è l’unica domanda interessante. In effetti per rispondere a questa domanda è necessario mettere in questione il presupposto impensato del processo di umanizzazione, che propriamente non può nemmeno partire se non si impara a parlare: la scimmia, in questo caso chiamata Washoe (dal nome della contea dove vivevano i coniugi Gardner: tutti i nomi sono assurdi), doveva diventare quasi umana, e quindi doveva imparare a comunicare con gli esseri umani. Da notare che Beatrice Gardner (nata Beatrix Tugendhut) era nata a Vienna nel 1933, ma la famiglia, al tempo dell’invasione nazista, si era stabilita in Polonia, da cui scappò diretta in Brasile prima, e negli USA poi. Si trattava forse di una famiglia ebrea? (Chissà se l’idea di organizzare un progetto per umanizzare un vivente non umano non abbia a che fare con le esperienze terribili dell’occupazione nazista).
Fatto sta che la scelta della scimpanzé Washoe per il loro esperimento, come scrivono esplicitamente i due scienziati, nasce dalla constatazione che si tratta di animali che si affezionano agli esseri umani: tuttavia, e questa precisazione fa venire i brividi, «affectionate as chimpanzees are, they are still wild animals, and this is a serious disadvantage» (Gardner 1969, pp. 664). È uno svantaggio essere animali selvaggi, cioè non umanizzati. Tuttavia Washoe, come Rotpeter con il linguaggio verbale, in qualche modo imparò ad usare l’ASL, cioè infine riuscì ad inventarsi una “via d’uscita”. Non è a caso che uno dei segni gestuali che Washoe usava più spesso era quello per chiedere di essere portata “fuori”:
Temo di non essere capito quando parlo di via d’uscita. Uso questo termine nel suo senso più completo e abituale. È con intenzione che non dico libertà. Non alludo a questo grande sentimento della libertà in tutte le direzioni. Come scimmia forse la conoscevo, e ho incontrato uomini che ambiscono ad essa. Ma per quanto mi riguarda, non desideravo la libertà allora come non la desidero oggi. […] No, non era la libertà che volevo. Solo una via d’uscita; a destra, a sinistra, era lo stesso; non avevo altre pretese. (Kafka 2023, p. 1767)
Riferimenti bibliografici
A. e B. Gardner, Teaching Sign Language to a Chimpanzee, “Science”, n. 165, 3894, 1969.
F. Kafka, Diari, a cura di Ervinio Pocar, Mondadori, Milano 1988.
Id., Una relazione per un’accademia, in Tutti i romanzi, tutti i racconti e i testi pubblicati in vita, Bompiani, Firenze-Milano 2023.
J. Lacan, Seminario XVII. Il rovescio dell’analisi. 1969-1970, Einaudi, Torino 2002.