Tra i vari capisaldi teoretici da cui occorre partire per comprendere l’ultimo volume di Slavoj Žižek, Una lettura perversa del film d’autore. Da Psyco a Joker, c’è sicuramente quello della spettatorialità, della quale il filosofo sloveno mette in discussione l’impianto teorico per così dire “classico”, più conosciuto al grande pubblico, ossia quello di Morin nel Cinéma ou l’homme imaginaire (1956). Nel suo sguardo sulle cose, nella sua percezione dell’immagine cinematografica, lo spettatore, secondo Žižek, non giunge a costruirsi un’immagine mentale con cui identificarsi e conoscere sia se stesso sia la realtà fenomenica che lo circoscrive. Nella sua dialettica con l’immagine, nella sua “dialogica” tra la percezione e la coscienza, lo spettatore non «si costruisce alcuna immagine di sé che lo riguarda e lo forma» (Žižek 2020, p. 17), perché per Žižek lo schermo deve essere concepito come «una schermatura idilliaca che nasconde una realtà ben più inquietante, destinata a rimanere inattingibile da parte dello sguardo dello spettatore» (ibidem). Lo schermo deve essere inteso come una sorta di velo simbolico in cui emerge un particolare che si “smarca”, che propone una schisi tra la percezione e la coscienza, che appare, insomma, fuori posto rispetto all’ordine di senso egemonico, così da mettere in discussione anche tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento, da trasfigurare ciò che è apparso.
Per Žižek questa “macchia”, questo particolare che si smarca, corrisponde al Reale lacaniano, «all’emergere di quel buco del simbolico che scardina la coesione dei significanti della realtà» (ivi, p. 18). Pensare lo schermo come il Reale equivale, innanzitutto, a concepirlo come qualcosa che, nello stesso tempo in cui ci dà da vedere, distorce quello che ci mostra, come una presenza-assenza, un’apparenza, un fantasma, l’unico modo secondo Lacan per accedere al Reale. Ed è in questo determinato punto teorico che per Žižek si colloca la psicoanalisi lacaniana, utilizzata dall’autore non solo per individuarla nel cinema, ma per dimostrare come costitutivamente essa sia cinematografica e come il cinema stesso sia ontologicamente psicoanalitico, come sia proprio del cinema essere psicoanalitico.
Così facendo, il filosofo sloveno rifiuta categoricamente prospettive teoriche legate alla psicologia cognitiva, come la Post-Theory: Reconstructing Film Studies del 1996 di Bordwell e Carroll, legandosi in parte a Le Signifiant imaginaire (1977) di Metz, il quale, servendosi di alcuni processi mentali (identificazione speculare, voyeurismo e feticismo) ha dimostrato parzialmente la coalescenza tra questa e il cinema. «La psicoanalisi è necessaria perché ciò che ignoriamo non è un contenuto segreto profondamente rimosso, ma il carattere essenziale delle apparenze stesse: si possono avere tante fantasie oscene, ma ciò che conta è quale di esse verrà integrata nella sfera pubblica della Legge simbolica, del grande Altro» (ivi, p. 134).
Attraverso la celebre triade lacaniana Immaginario-Simbolico-Reale, Žižek, servendosi di numerosi film, dimostra come la “matericità” cinematografica stessa (dissolvenza incrociata, dialettica tra campo e fuori campo, piano-sequenza, interpellazione simulata) sia perversa e crudele, come essa sia, prima di tutto ma non soltanto, il risultato dello scarto tra il Simbolico, il grande Altro o Ideale dell’Io (il punto della mia identificazione simbolica dal quale giudico e osservo me stesso) e il Reale, o il Super-Io (il cui imperativo non è altro che quello della jouissance, dell’obbligo a godere), che non è soltanto ciò che distorce la nostra percezione dell’immagine nel momento in cui ce la dà a vedere, bensì anche il vuoto, la cavità stessa, la breccia che permette il passaggio verso un ordine ontologico differente, verso gli aspetti più profondi sia dell’esistenza umana sia dell’immagine cinematografica.
L’esempio cinematografico più evidente che Žižek utilizza per spiegare alcuni dei tratti differenziali tra il grande Altro e il Reale, lo troviamo in Matrix (1999) dei fratelli Wachowski: «La Matrix è il grande Altro, l’ordine simbolico virtuale, la rete che struttura la realtà per noi. Il grande Altro tira i fili, il soggetto non si esprime, egli è espresso dalla struttura simbolica […] Il Reale non è la “vera realtà” dietro la simulazione, ma il vuoto che rende la realtà inconsistente, e la funzione di ogni simbolica Matrix è di nascondere questa inconsistenza» (ivi, p. 66). Ma è nella sessualità, nel godimento sessuale che per Lacan ci avviciniamo più che mai ad un altro essere umano, all’inconsistenza che ci abita e, per Žižek, a quel vuoto che dimora nell’immagine cinematografica, trascendendo in entrambi i casi qualsiasi ordine di senso.
Composto sia da scritti inediti, come quello su Joker (2019) di Phillips, che non, come quelli su Hitchcock, nonché suddiviso in otto capitoli che dal Codice Hays arrivano fino all’indiscernibilità di Lost Highway (1997) di Lynch e alla sequenza dell’omicidio dell’investigatore privato Arbogast (Martin Balsam) in Psycho (1960) di Hitchcock, l’ultimo volume del filosofo sloveno si incentra sull’individuazione di questo godimento sessuale traumatico, di questa perversione. Per esempio, l’autore rintraccia alcuni tratti nel celebre codice di censura del cinema narrativo classico americano, nel Codice Hays, indagandone il funzionamento perverso e contraddittorio a partire da un’intervista tra von Sternbeng e Breen. In questo colloquio, von Sternberg fa notare al giornalista come il codice, oltre a porsi come severa proibizione di alcuni argomenti, contemporaneamente ne permettesse l’articolazione in maniera cifrata. Il desiderio sessuale, l’eccessiva sessualizzazione, spiega Žižek, è l’effetto, il risultato della proibizione fondamentale: «Tutto ciò che fa la povera eroina affamata, anche camminare per strada o mangiare, è transustanziato nell’espressione di andare a letto col suo uomo. È chiaro come il funzionamento di questa proibizione sia perverso» (ivi, p. 136). In tal modo, il codice crea un movimento riflesso grazie al quale sarebbe la protezione dal contenuto sessuale proibito a produrre una diffusa sessualizzazione, un’eccessiva ingiunzione desiderante, così da rendere il ruolo della censura più ambiguo di quel che sembra.
Un simile movimento perverso, il filosofo lo individua anche nel differenziale tra la femme fatale del noir della classicità e quella del neo noir degli anni novanta, che condurrebbe alla cosiddetta “trasparenza del Male”. Concentrandosi soprattutto su Bridget Gregory (Linda Fiorentino) in The Last Seduction (1994) di Dahl, la femme fatale degli ultimi venti anni del Novecento, secondo il filosofo, non funge più da trasgressione intrinseca all’universo simbolico patriarcale, da fantasma maschile masochistico-paranoico nel quale la donna sfruttatrice e sessualmente insaziabile domina l’uomo e allo stesso tempo, godendo della sua sofferenza, lo induce al maltrattamento. La Bridget Gregory dell’ultima seduzione, a differenza di Brigid O’Shaughnessy (Mary Astor) di The Maltese Falcon (1941) di Huston, «sovverte il fantasma masochistico maschile perché lo realizza direttamente e in modo brutale, mettendolo in scena nella “vita reale”» (ivi, p. 142).
La nuova femme fatale conosce perfettamente i fantasmi masochistici maschili e sa che dare a loro direttamente ciò di cui fantasticano è il modo più efficace per destabilizzarne il dominio. Partendo dalla propria automercificazione, la femme fatale distrugge il proprio partner trasformandolo in un oggetto parziale, cosicché lei diventi une vraie femme tout court. Oltre alla “coseificazione” della femme fatale, oltre al suo divenire feticcio, merce, oggetto parziale conduttore di perversione, ci può essere anche il caso in cui sia un oggetto-Cosa in sé ad essere crudele e masochistico. In che modo, allora, il motivo della Cosa può apparire nello spazio diegetico della narrazione cinematografica? Nell’Etica della psicoanalisi, Lacan definisce l’arte stessa in riferimento alla Cosa (das Ding), in quanto organizzata intorno al vuoto centrale della Cosa impossibile e reale.
In linea generale, l’archetipo della Cosa è un oggetto, impossibile e/o traumatico, come la Cosa aliena nei film horror di fantascienza, tipo un oggetto non umano, ma tuttavia vivente e persino in grado di avere una propria volontà maligna, come in The Thing (1982) di Carpenter. Nondimeno, però, la Cosa, in quanto asessuale in sé, è intrinsecamente correlata alla differenza sessuale: la gigantesca roccia vulcanica in Picnic at Hanging Rock (1975) di Weir rappresenta «un campo proibito in cui gli usi e costumi comuni sono in qualche modo sospesi per cui, una volta entrati in questo campo, gli osceni segreti del piacere sessuale diventano accessibili» (ivi, p. 99), una zona sacra in cui i nostri desideri si materializzano direttamente, in cui si dissolve lo scarto tra il Reale e il Simbolico.
Secondo Žižek, la rock rappresenta l’esperienza primordiale della libido, della vita nel suo libero prosperare, la jouissance féminine, la sfrenata passione vitale, a lungo controllata dalla società vittoriana, che ad un certo punto esplode, anche in maniera disgustosa e perversa, grazie alle «inquadrature ravvicinate di rettili e serpenti – associabili al peccato originale – che strisciano attorno alle ragazze dormienti» (ivi, p. 101). La perversione, però, può concretizzarsi anche attraverso quello che Žižek, parlando del suo regista prediletto, Hitchcock, definisce come il trionfo sull’occhio dello sguardo, partendo dalla dimensione teologica, giansenista precisamente, individuata da Rohmer e Chabrol nel loro celebre volume sull’autore inglese: lo sguardo di un Dio crudele che sadicamente gioca con i destini umani. Attraverso il testo di Lacan Kant con Sade, il filosofo sloveno si sofferma sul fatto che il sadico gode solo nella misura in cui attraverso la sua attività provoca una divisione dell’Altro, dello spettatore, che Hitchcock esegue conducendo lo spettatore dall’eccitazione sadica di vedere il protagonista schiacciare il cattivo ad un surplus di desiderio sadico, cosicché lo spettatore non possa far altro che ammettere di essere manipolato dall’unico vero sadico, Hitchcock.
Questo cambiamento di prospettiva Hitchcock lo realizza grazie al passaggio da Io a a, dallo sguardo come punto d’identificazione simbolica soggettiva allo sguardo come oggetto, come oggetto a, a cui manca una vera e propria soggettivazione. Nella celebre sequenza dell’assassinio di Arbogast in Psyco, Hitchcock passa, grazie anche ad uno stacco di montaggio, dal punto di vista soggettivo dell’assassino stesso al punto di vista di Dio, allo sguardo della Cosa grazie ad una plongée: «Nei termini di Hegel, Hitchcock compie l’autoriflessione dello “sguardo oggettivo” nello “sguardo dell’oggetto” stesso; in quanto tale, indica il momento preciso dell’ingresso nella perversione» (ivi, p. 221). Nel modo dello sguardo dell’Altro, dello spettatore, Hitchcock registra una vicinanza che va al di là dell’identificazione con il personaggio della mimesis praxeos, che trascende la soggettivazione, promuovendo un essere inquietante che per Žižek si adatta perfettamente al termine tedesco Unheimliche, la cui assoluta estraneità si collega ad una minacciosa prossimità. Questa figura di alterità, lo sguardo dell’Altro, per il filosofo sloveno non è altro che la Vorstellungsrepräsentanz: una rappresentazione che sostituisce nell’immagine cinematografica una rappresentazione che è costitutivamente esclusa dal suo spazio.
Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003.
S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore. Da “Psyco” a “Joker”, Mimesis, Milano 2020.