I’ll guess I’ll go through life,
just catching colds and missing trains.
Everything happens to me…

Tutto non va secondo i piani: e se la ridono, caso e vita, delle previsioni, deviandole o ritardandone l’inveramento. E ci si può rassegnare, allora, a essere tra coloro che perdono i treni. Oppure si fa cinema, e a dispetto degli incidenti di percorso – o forse proprio “per” quelli – esser noi a dar forma (filmica) al tempo. Un giorno di pioggia a New York, nuova commedia di Woody Allen dopo le nuances melodrammatiche dello stupendo La ruota delle meraviglie, racconta di questo.

Il tempo che si vorrebbe “insieme”, di un romantico weekend a Manhattan previsto da Gatsby (Timothée Chalamet) in compagnia della fidanzata Ashleigh (Elle Fanning), approfittando dell’intervista che lei dovrà fare lì a un regista di culto, è infatti ostacolato da una ridda di situazioni paradossali. E allora il tempo si frange, li trova sgambettati dagli imprevisti. Sincopato, un po’ come il singhiozzo che prende Ashleigh quando – biondina in maglione ceruleo, tutta ingenuità di provincia e accensioni negli ori caldi di Vittorio Storaro – è emozionata per i divi del cinema che incontra (e crediamo allora di riconoscere in lei parte degli impacci, timidi e seducenti a un tempo, di alcune figure femminili che nel cinema alleniano avevano il volto di Diane Keaton).

Swingin’ così l’andamento tutto del film, come il jazz che Allen ha sparso a piene mani nel suo cinema e che qui non sentiamo – anche se Gatsby, ottimo pianista, si produce in un’intensa Everything Happens To Me, standard reso celebre, tra gli altri, da Chet Baker o Frank Sinatra – ma, come per sinestesia, s’è tutto trasfuso alle immagini, tanto al montaggio si alternano vivacemente le traversie dei due fidanzatini separati, e magari stacca giusto a ridosso dell’ultima battuta pronunciata.

Può darsi, allora, che davvero New York sia (o che Woody Allen voglia “sentirla” e riesca quindi a farcela credere) rapsodica: d’altronde, come si diceva contro la skyline iniziale di Manhattan (1979), questa città non «pulsava dei grandi motivi di George Gershwin»? Perciò, svoltare un angolo di strada, per Gatsby può significare imbattersi in un ricordo – è un rampollo “bene” dell’Upper East Side, sempre però tentato da sregolatezze bohemienne – o fare incontri inattesi.

E allora, come nel jazz, bisogna saper improvvisare sui toni che il caso detta, andare – per dispari che sia – a tempo. Che è la cosa più preziosa (questo, al fondo, il lascito del film sul quale s’imprime la sagoma del Delacorte Clock di Central Park): che non lo si passi insieme come si desiderava, che sia anche quello delle occasioni del tutto indesiderate come in fondo solo i veri doni possono essere, e gli incontri insospettabilmente migliori, e si chiacchiera alla luce calda di interni quando fuori la città è grigia, piovosa, malinconica, come Gatsby ama romanticamente figurarsela.

Di questo amore per un’immagine in qualche modo assoluta, e quindi fuori da un tempo reale che non ci corrisponde, della possibilità di ripensarlo e rifarlo (anche col cinema), in realtà dice già il “non-nome” del protagonista. Perchè formato, a rigore, da due cognomi, Gatsby e Welles, che alludono alle sue possibili parentele morali.

Il protagonista, Jay Gatsby, del romanzo di Scott Fitzgerald (nume di Allen, infatti, in Manhattan inserito nell’“accademia dei sopravvalutati” in una battuta di Diane Keaton insieme agli altri amati Bergman, Mozart, Mahler, Van Gogh…), s’era inventata e costruita una vita a sua immagine, un magnifico falso per riconquistare l’amata di un tempo, Daisy. Rifare il passato, negare il corso del tempo (come, in maniera diversa, accade con l’altro protagonista fitzgeraldiano Benjamin Button, fisicamente anziano da neonato e in vecchiaia col corpo da infante), sfidando quindi l’idea, espressa nel romanzo Gli ultimi fuochi, che “non esiste un secondo atto nelle vite degli americani” (e che era, in fondo, l’amara consapevolezza cui sembrava giungere Kate Winslet ne La ruota delle meraviglie).

Ma, appunto, si può far cinema, e così inventarsi il tempo, tentare di costruirlo secondo una propria immagine. È ciò che desidera lo stesso Gatsby Welles: sembra infatti un regista quando descrive a Chan, la ragazza di città, la scena di un appuntamento immaginato al Central Park sotto la pioggia nel tardo pomeriggio, e più in generale le atmosfere di una New York – o “il set” che lui le immagina – di altri tempi. D’altronde, come lo descrive Ashleigh, è uno che sogna epoche passate (non diversamente dal suo quasi omonimo letterario); come Owen Wilson in Midnight in Paris cercava nel proprio immaginario le memoria di un genius loci che forse non è più, ma davvero poi viveva la Parigi anni ‘20 di Hemingway, Picasso, Gertrud Stein e, certo, Scott e Zelda Fitzgerald.

Secondi atti di nuovo possibili, perché c’è il cinema, potenza creatrice di nuovi possibili e nuovi tempi. Orson Welles, allora (il cui ruolo dirompente nella storia del cinema, per altro, proprio Fitzgerald aveva già profeticamente intuito nel suo racconto Pat Hobby e Orson Welles, del ‘40 – dunque antecedente a Quarto Potere) che aveva finto la radiocronaca dell’invasione marziana, e fino a F for Fake ha popolato il suo cinema di falsari, e dove la falsificazione della narrazione – come notava Deleuze – è strumento per cui passa la creazione di possibili non ancora dati, di ambiguità di piani temporali (indecidibilmente presente/passato) liberate da discernimento e giudizio, i personaggi da colpa, la vita da vero/falso.

E Woody Allen, che a Gatsby Welles somiglia, sembra far quindi sua la frase che Chan dice al protagonista: «La vita reale è solo per chi non sa fare di meglio». Come Gatsby dà prova di poter far di meglio del tempo reale del weekend romantico fallito, ritrovando poi una New York in qualche modo in accordo al suo immaginario, ma grazie agli incidenti di percorso, così fa Allen. Col film realizza la sua New York. Perchè se a Manhattan è improbabile trovarsi in due su uno stesso taxi, o imbattersi in un amico che gira un noir al Greenwich Village, mentre nella realtà gli artisti squattrinati hanno abbandonato nell’ordine Soho, Tribeca, Brooklyn per tornare prosaicamente “da mamma e papà”, si può però verificare (far vero, cioè) tutto questo nel film. Dove può restare calda la luminosità d’un tramonto anche nel temporale.

Ci si può creare altre vite possibili, e, finalmente, mettere quella cosa preziosa che è il tempo ai propri passi. Ri-realizzarne, quindi, nel film, il genius loci che ispira Allen regista, come un’immagine fuori dal tempo e dai suoi capricci («Per lui questa città sarebbe sempre esistita in bianco e nero», si diceva ancora in Manhattan). Ci si può inventare, allora, sempre dei secondi atti e verificarli con ogni film, anche magari attraverso una falsificazione della città con lo stesso farne set, come a suo modo la vuole Gatsby.

Dalla ruota panoramica di Coney Island del film precedente al carillon con la giostra di animali del Delacorte Clock di questo. Non si arresta la macchina dei tempi/cinema, come, a dispetto degli incidenti di percorso del tempo della vita, non cessa di verificare nuovi secondi atti la filmografia del regista. A dispetto della chiusura de La ruota delle meraviglie con l’immagine di una sedia, quella del bagnino-narratore, così tanto simile a una director’s chair ma vuota, e per giunta dinanzi a un rogo, non molto diversamente da quanto avrebbe voluto l’ostracismo della vita reale fuori dai film. Che, però, è solo per chi non sa fare di meglio. E poi, «New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata».

Riferimenti Bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
F.S. Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz, Minimum Fax, Roma 2011.

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