Sogno, incubo, scena, stile di vita, uomo, natura, deserto, prassi, romanzo, cinema, democrazia: per tutto questo e altro l’accostamento con l’aggettivo “americano” identifica subito una forma specifica e ben individuata in cui l’essere viene a espressione. Tale espressione riguarda tutti. Sicuramente il mondo occidentale, di cui l’America ha rappresentato l’attuazione di una possibilità ulteriore, l’invenzione del nuovo, l’immaginazione di una seconda nascita.

L’America porta a espressione una vera e propria ontologia, radicata e profonda, che ha al centro l’azione, concetto che attraversa tutte queste pagine.

Le forme di vita americane mostrano all’opera nel quotidiano la ristrutturazione continua dell’esperienza, il cambio costante di regola, l’affermazione di una pura potenza di cui il denaro è simbolo. Tant’è che il denaro per gli americani – ci ha detto Margaret Mead (2019) – non è esposizione del lusso. L’austerità di abbigliamento e di costumi è il contrassegno dell’americano, anche quando è molto ricco. Il denaro non va accumulato (nessuna logica del risparmio), va fatto crescere in modo continuo. Il denaro è possibilità e tale deve restare. La finanza è il corto circuito di tale possibilità, la sua pura affermazione che sospende ogni attualizzazione. È una vertigine del possibile che attrae e paralizza. E che non riesce a fermarsi. Lo sguardo morale con cui giudichiamo il mondo americano è spesso indicativo più di cattiva coscienza che di altro.

In gioco c’è piuttosto l’impasse di una possibilità pura. Lo stallo di tale condizione deriva dal non prevedere che la possibilità possa riguardare anche il non. Qui Melville nel suo Bartlebly, con la formula I would prefer not to, lo ha immaginato nel modo più potente (Agamben 1993): non esiste potenza effettiva che non sia anche potenza di non. È il contromovimento che la grande letteratura americana ha saputo costruire e immaginare: sospendere l’azione mettendosi in pausa o in fuga. Fuga dalla società e fuga da sé stessi. Così nasce l’America, e così tale nascita viene riproposta nella vasta terra americana. D. H. Lawrence lo dice in un testo che rimane epocale, dove l’America e gli americani, visti dall’Europa, emergono nella loro differenza, e proprio attraverso la letteratura: «They came largely to get away […]. To get away. Away from what? In the long run, away from themselves. Away from everything» (2014, p. 40).

Come nel racconto di Hawthorne, Wakefield, in cui il protagonista esce di casa, abbandona la famiglia, prima di ritornarvi dopo vent’anni. O come nel racconto fondativo della narrativa americana, Rip Van Winkle di Washington Irving, in cui il personaggio si addormenta per poi risvegliarsi a Rivoluzione americana avvenuta, con il mondo radicalmente cambiato.

È l’accesso americano al romance, contro il novel europeo: sconfessione del realismo e del racconto della borghesia e della sua ascesa, e acquisizione di una forma narrativa che trasfigura la realtà, incarnando l’astrattezza di una forma mitica (ivi, p. 61). Solo attraverso tale forma, innocenza e colpa, felicità e dolore possono avere accesso alla rappresentazione.

Il profilo astratto e oppositivo dei personaggi americani (Achad e Pearl su tutti) sostituisce il realismo degli ambienti europei. E la fuga dalla realtà è anche fuga dall’amore e dalla relazione tra i sessi, sostituita dal “cameratismo” e dall’amicizia maschile: oltre naturalmente a Whitman, abbiamo Melville ma anche Twain con Huckleberry Finn.

La grande potenza della letteratura americana, di quello che Matthiessen (1954) ha chiamato il “Rinascimento americano” di metà Ottocento, risiede nell’essere stata allo stesso tempo la letteratura di una nuova nazione, capace di trovare i poeti in grado di cantarla (il poeta chiesto da Emerson), ma anche la letteratura della fuga, della linea di fuga, per mare, foresta, wilderness. Fuga nello spazio, nel tempo, nel sonno, fuga sur place, fuga dalla vita morale, per entrare in un divenire dove la comunità si fa gruppo di incontro, dove il cameratismo conta più della famiglia (marcata a fuoco dalla colpa morale in The Scarlet Letter). A contare sono l’individuo e le sue relazioni, con il compagno, la natura, l’altro. L’individuo in viaggio, dove l’essere senza radici è una precondizione per costruire quello «Spirit of Place» lontano dal «blood» (ivi, pp. 13 sgg), dai legami di sangue europei.

Nessuna prescrizione morale può bloccare tutto questo divenire, dove ogni inizio porta con sé necessariamente una fine, dove il desiderio di fondare è l’altro lato di quello di fuggire.

L’America ci mostra qualcosa della nostra condizione umana: nascere non significa entrare in un mondo dato, ma aprirne uno nuovo, fondarlo. E questo significa divenire, mettendo in questione ogni identità fissa, ogni legame con una terra. Si approda a qualcosa di nuovo solo se si lascia qualcosa di vecchio. Nascere è separarsi, così come rinascere. L’Europa ha dimenticato tutto questo, i suoi imperi hanno perimetrato spazi e assoggettato popoli, rendendo impossibile il divenire.

La democrazia americana è in primo luogo la forma in cui un divenire è possibile. Il suo fondamento è in fondo anarchico. Quell’infinita inquietudine e instabilità che Tocqueville (2006, p. 261) riscontrava come connaturati alla democrazia statunitense non sono che i sentimenti che animano al cuore la prassi, senza cui l’America non potrebbe esistere. Prassi strutturalmente ambivalente perché sempre imputabile, dunque colpevole (Agamben 2017). La violenza e la dissoluzione sono il naturale corollario di questo vincolo tra azione e colpa. Divenire può dunque anche significare percorrere una linea di fuga dissolutiva. Il mare di Moby Dick ci dice questo, contrapposto alle praterie di Fenimore Cooper: nascita e dissoluzione non sono separabili.

Insomma l’America ci fa vedere l’umano nella sua dimensione mitica, dove la prassi non è solo un’articolazione dell’essere, ma anche la trasformazione di questo in un divenire. E tale processo è attraversato dal rischio che la nascita del nuovo si converta in un processo dissolutivo: fondare una nuova civiltà, ma anche isolarsi in questa, vederne la meravigliosa potenza (Whitman) ma anche tutto lo spaventoso che l’attraversa (Poe). Sono le aporie della libertà che vediamo all’opera nelle forme di vita americane: l’individuo animato da una fiducia che si traduce in azione e lo rende singolare, distinguendolo dagli altri. Altri ai quali è comunque legato per una comune assenza di particolarità (soprattutto di nazionalità) e per comunanza di destino (uomini in fuga, o che da una fuga provengono).

È una nazione che di fatto è un mondo-patchwork. Melville ce lo dice in Redburn: «You can not spill a drop of American blood without spilling the whole world» (1983, p. 185). Ma anche Whitman nella sua introduzione a Leaves of Grass: «Here is not merely a nation but a teeming nation of nations» (2017, p. 1).

Insomma, la nascita di una nazione avviene senza alcuna base nazionalistica, ma nello spirito di un incontro tra fratelli, che sconfessa ogni legame prioritario con figure paterne.

La morale europea si trasforma nell’etica americana dell’incontro, che «si realizza solo prendendo la strada, senza altro fine, esposta a tutti i contatti» (Deleuze 1997, p. 115). Ha ragione allora Deleuze quando identifica «l’eroe del pragmatismo» non «nell’uomo d’affari che ha avuto successo» (ivi, p. 116), ma nei grandi personaggi letterari, da Bartleby a Daisy Miller a Pierre e Isabel. E per il cinema potremmo senz’altro aggiungere tutti i grandi personaggi del cinema americano, presenti nei film di Orson Welles o in quelli di Clint Eastwood.

La potenza immaginaria, simbolica e reale dell’America, la perennità del suo mito, risiedono nella congiunzione all’interno della prassi dell’annuncio del Nuovo Mondo e del suo dissolversi, della fiducia che anima l’uomo nuovo (cantata da Emerson in Self-Reliance) e di quella carpita dal truffatore (che ci racconta Melville in The Confidence Man), di una natura che è romanticamente il Tutto che salva ma anche la wilderness in cui ci si perde. Il confine è sottile, i ribaltamenti possono essere repentini e imprevisti, ma senza correre il rischio di percorrere tale linea, la vita faticherebbe a esprimersi.

È di questo che l’America è il nome: del contemporaneo venire a espressione, e dunque a realtà, della vita, del nuovo, della nascita, ma anche, e allo stesso tempo, della dissoluzione, della linea di fuga, della deriva. L’incubo non è qualcosa di diverso dal sogno, è la sua piega interna. La vita, proprio perché democratica, è strutturalmente anarchica, fondata su accordi e convenzioni che possono cambiare, anche velocemente.

In tutto questo, l’antiamericanismo come slogan è un epifenomeno rispetto alla portata mitica e antropologica dell’America, di chi nella immanenza creatrice della prassi ha saputo inscrivere la sua trascendenza. L’America è stata e continua comunque a essere la scena in cui vediamo la nostra vita, la vita di tutti, in tutta la sua maestosa ambivalenza e contraddittorietà.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993.
Id., Karman. Breve trattato sulla colpa, l’azione e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
G. Deleuze, Bartleby o la formula, in Id., Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1997.
D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, Cambridge Edition, Cambridge 2014.
F.O. Matthiessen, Rinascimento americano. Arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman, Einaudi, Torino 1954.
M. Mead, America allo specchio. Lo sguardo di un’antropologa, il Saggiatore, Milano 2019.
H. Melville, Redburn, The Library of America, New York 1983.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.
W. Whitman, Leaves of Grass, Penguin Classics, London 2017.

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis, Milano-Udine 2025.

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