Fai fare ad alcune persone l’elenco di tutti gli oggetti che riterrebbero essenziale avere con sé dovendo passare, da sole, 24 ore in un luogo chiuso in cui non c’è assolutamente niente*.
Nell’Abecedario, video-dialogo con Claire Parnet, alla lettera E di Enfance Gilles Deleuze diceva che il romanzo dedicato all’infanzia di Nathalie Sarraute non è affatto un libro autobiografico sui primi anni di vita della scrittrice, quanto un modo per inventare un mondo, arrivare a mostrare la vita nella sua impersonalità, in questo caso “traendo meraviglie” dal linguaggio e dalle sue formule stereotipate. Partendo non dalle parole, ma da sessantaquattro oggetti intesi come “prove materiali” delle storie raccontate, Cesare Pietroiusti ci propone un libro che è nello stesso tempo il catalogo della retrospettiva del suo lavoro – tenutasi al Mambo di Bologna dal 4 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 – e una strana autobiografia senza soggetto, o meglio, in cui il soggetto appare solo decentrato, negli oggetti e negli incontri. Nel libro Un certo numero di cose. 1955-2019 ogni anno della vita dell’artista viene infatti rappresentato dall’accostamento tra un’immagine – di oggetti materiali, lettere, fotografie, opere d’arte, documenti – e un testo-didascalia. Si tratta, tuttavia, di strane didascalie che invece di illustrare semplicemente l’immagine propongono nuovi e imprevisti accostamenti, aprendone la lettura verso altre possibilità.
Un esempio per decennio: il testo accanto alla prima fotografia del volume – Pietroiusti bambino con la sua balia – rimanda al “seno buono” della teoria di Melanie Klein, ma nelle ultime righe il riferimento al grembiule indossato dalla donna fa balenare il tema della divisione delle classi sociali; le poche righe dedicate alla pagella del 1968 alludono a un “fuori” dalla scuola, in cui “succedevano cose straordinarie”; la didascalia del 1976 commenta l’attività del giovane Pietroiusti in una radio libera, ma anche l’incontro con Sergio Lombardo, il quale – come dirà lo stesso Lombardo molti anni dopo – decide di fare del ragazzo “un artista speciale”: esperimento che fa dell’autore del libro non un artista ma un’opera d’arte, e per di più di qualcun altro, affermazione che si può immaginare davvero liberatoria per chi crede nella “reversibilità” tra autore e opera, testo e immagine, arte e vita.
Dal 1977 le immagini si riferiscono più frequentemente all’attività artistica di Pietroiusti, mostrando disegni, installazioni, performance; qui la via di fuga dal testo pensato come pura e semplice spiegazione è intrinseca al lavoro dell’artista. La reversibilità di cui si parlava, rivendicata da Pietroiusti come indizio di necessaria incompletezza e mobilità, appare concretizzata nell’oggetto del 1988, la porta di un bar di Radda in Chianti la cui parte interna – “diario/delirio collettivo” pieno di scarabocchi, scritte e disegni osceni – viene fotografata ed esposta sul lato esterno nell’occasione di una mostra collettiva. Il tema del rapporto e dello scambio tra interno ed esterno ricorre d’altra parte come vera e propria dichiarazione di poetica: «Penso che la pratica artistica corrisponda proprio ai processi di scambi fra l’interno e l’esterno, alla capacità di costruire una visione a partire dallo strabismo estremo di uno sguardo che guarda con un occhio fuori e uno dentro» (Pietroiusti 2019, p. 119).
L’oggetto-anno 1997 è l’installazione Pensieri non funzionali, trascrizioni quotidiane di pensieri inutili, impossibili, immotivati, anti-economici, solitamente affioranti nell’inattività, ignorati ed effimeri, e invece qui messi a fuoco e proposti come un vero e proprio metodo, un libretto di istruzioni per il non uso, o come un serbatoio di idee che chiunque può prendere a prestito.
Letteralmente una via di fuga, sebbene assurda e persino imbarazzante, è l’oggetto-anno 2006, immagine della performance all’Angelo Mai in cui Pietroiusti apre un varco in un muro di pietra del palazzo per finire a guardare dentro il gabinetto di una casa adiacente. L’azione richiama un episodio dell’infanzia (oggetto dell’anno 1964) identificato dall’artista come sua opera prima: il tentativo compiuto da bambino, insieme ad un amico, di aprire un buco nel muro che divideva l’appartamento dei propri genitori con quello dei nonni, tentativo frustrato ma generativo di una forma di vita che vuole “andare a vedere cosa c’è dall’altra parte”.
È infatti un modo di vita più che il catalogo di un percorso artistico quello che ci viene proposto in questo libro, così come gli oggetti che lo compongono non sono opere, né feticci, poiché il loro rimandare a qualcos’altro non nasce nel congelamento dello sguardo, nella scena del trauma descritta da Freud, e non sono forse nemmeno l’inafferrabile oggetto piccolo (a) lacaniano, troppo segnato dalla mancanza. Come possiamo allora caratterizzare la loro incompiutezza, reversibilità, apertura?
Nella conferenza del 1987 dedicata all’atto di creazione, rivolta ai ragazzi della scuola di cinema FEMIS, a Parigi, Deleuze sosteneva che esiste un’affinità fondamentale tra opera d’arte e atto di resistenza. Tale affermazione è inclusa nella risposta alla domanda, posta dallo stesso filosofo, sulla modalità del rapporto tra arte e comunicazione: l’arte non è comunicazione, non contiene alcuna informazione, anzi deve opporsi all’informazione in quanto essa è sempre un insieme di “parole d’ordine” di una determinata società. In questo scenario, l’opera d’arte non è certamente l’unico gesto di resistenza, né si esaurisce nella resistenza, ma Deleuze afferma che essa ha con la resistenza un rapporto allo stesso tempo intenso e misterioso. I termini e le qualità di questo legame non vengono ulteriormente approfonditi, se non insistendo sul fatto che l’opera d’arte innanzitutto resiste alla morte.
Sarà Giorgio Agamben a riprenderla, nel suo scritto omonimo Che cos’è l’atto di creazione?, chiamando in causa la “capacità di sviluppo” presente nel pensiero di Deleuze come suo elemento prettamente filosofico, e decidendo di elaborare lui stesso ciò che è rimasto non detto e che occorre trovare ed espandere. Agamben vuole raggiungere una zona di indiscernibilità con l’autore che viene interpretato e sviluppato, principio metodologico anch’esso esplicitamente deleuziano. Il principio della non originalità, della “indistinzione” è continuamente dichiarato e messo in atto da Pietroiusti attraverso il “fare qualcosa per gli altri” (oggetto-anno 1994), lo scambio di idee, di ruolo, di soldi, di vestiti, ma anche attraverso la ripresa e la manipolazione di scritte, disegni e scarabocchi altrui, o la distribuzione gratuita di disegni (come nel caso dei 400 disegni fatti con il fuoco e distribuiti nel corso della mostra Sensibile comune. Le opere vive ideata insieme a Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, oggetto-anno 2017).
Nello sviluppare la questione della resistenza, Agamben parte dalla definizione di dynamis della Metafisica aristotelica come di qualcosa che si definisce anche in base alla «possibilità del suo non-esercizio», e propone una idea di resistenza tutta interna all’atto stesso di creazione, una resistenza intesa cioè come possibilità di non-fare, inoperosità coessenziale alla potenza stessa. La possibilità critica di un ritrarsi, di un vuoto che è esso stesso un potere, ma un potere-di-non – e che rimanda ovviamente al Bartleby di Melville, commentato da Deleuze e da Agamben stesso –, è il cuore dell’atto stesso della creazione, dove c’è sempre qualcosa che resiste e che si oppone all’espressione, all’opera, al depositarsi stabilmente in un oggetto. Le cose di Pietroiusti sono sempre nel mezzo di questo processo, tra la potenza e l’atto, e la loro incompiutezza, che si rende disponibile a futuri sviluppi, ha piuttosto a che fare con un atto di resistenza.
Nel pensiero di Deleuze e Guattari la resistenza prende a volte anche la strana foggia della conservazione: l’opera d’arte in primo luogo conserva, scrivevano in Che cos’è la filosofia?, affermazione sorprendente per gli autori del divenire e del pensiero nomade. Ma l’idea della conservazione serve qui per ribadire l’indipendenza dell’opera dall’artista, il suo svincolarsi da ogni tratto soggettivo. In questo senso, la presenza dell’opera serve non a ricordare, bensì a eludere il soggetto, a dimenticare e al limite cambiare il passato. È forse possibile caratterizzare in questo modo l’uso che Pietroiusti fa delle “prove materiali” degli anni della sua vita, non a caso riattualizzate nel corso della mostra con “rifacimenti” collettivi, la cui somma costituisce una “super-cosa” (oggetto-anno 2019): «C’è ancora da dire e da fare; […] l’opera, anche a costo di perdere la sua stessa distinguibilità, non è confinata nel passato. Non è finita. Forse, non è fatta» (ivi, p. 5).
* Questo è il “pensiero non funzionale” che mi ha proposto – casualmente – il sito di Cesare Pietroiusti mentre scrivevo queste pagine. Nel 1996 tale questione è stata posta a sette persone e gli oggetti scelti sono stati portati all’interno di uno spazio del museo Louisiana di Humlebaeck-Copenhagen. In tale spazio Pietroiusti è poi rimasto rinchiuso per sette giorni.
Riferimenti bibliografici
Abecedario di Gilles Deleuze, Video-intervista in due DVD a cura di Claire Parnet per la regia di Pierre-André Boutang, DeriveApprodi, Roma 2014.
Aristotele, Opere 7. Metafisica, Laterza, Roma-Bari 2018.
G. Agamben, L’atto di creazione, in Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017.
G. Agamben, G. Deleuze, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 2011.
G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2010.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
S. Freud, Il feticismo (1927), in OSF, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
M. Klein, Invidia e gratitudine, Martinelli, Firenze 1969.
J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino, Einaudi, 2007.
H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli, Milano 2015.
N. Sarraute, Infanzia, Cronopio, Napoli 2005.
Cesare Pietroiusti, Un certo numero di cose. 1955-2019, Nero Edizioni, Roma 2019.